Commento al Vangelo anno 2020


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Commento al Vangelo anno 2024

E’ bello comprendere il significato delle descrizioni dei fatti del Vangelo apparentemente così semplici … Ed è utile ricordare anche i ricordi storici delle consuetudini… ognuno ha la possibilità di sentire quanto ci appartiene – più o meno – quel timore del lebbroso che desidera almeno di poter pregare… E’ un Vangelo nuovo.


1° novembre 2020 – I POVERI NELLO SGUARDO DI DIO
LE BEATITUDINI DI MATTEO – A cura di P. Alberto Maggi
“La religione è l’oppio dei popoli”. Con questa perentoria affermazione, Karl Marx denunciava il pericolo delle religioni. Non aveva torto Marx. Se una religione viene usata dai ricchi e dai potenti per mantenere il dominio su una massa di poveri e di oppressi, è veramente un oppio, cioè un narcotico che neutralizza le energie e le forze vitali del popolo. Sul banco degli accusati, in prima fila tra le religioni, c’era, secondo Marx, proprio il cristianesimo e in particolare il messaggio di Gesù conosciuto come “beatitudini”.
Una religione nella quale si proclamavano beati i poveri, perché proprio a causa della loro indigenza avevano il paradiso assicurato, era indubbiamente una religione alienante. Come si poteva dire agli afflitti, agli affamati, che erano beati? E perché erano beati? Perché dopo il calvario della loro esistenza, come “premio”, sarebbero stati portati in prima fila in paradiso. Un paradiso, però, che non solo non era precluso al ricco, anzi, il ricco si assicurava l’Aldilà lasciando generose offerte per la celebrazione delle famose messe perpetue dopo la sua morte. E i poveri si sentivano beffati sia su questa terra che in quella futura.
La predicazione di questo messaggio non poteva che essere fallimentare.
Di fatto i poveri, gli afflitti e gli affamati, alla prima occasione che la vita offriva loro di uscire dalla loro indigenza e sofferenza non ci pensavano due volte, lasciando povertà e beatitudine senza alcun rimpianto. D’altro canto, quanti non si trovavano in queste situazioni di miseria e di oppressione si guardavano bene dall’entrarci, decretando così il fallimento del messaggio di Gesù.
A causa di ciò le beatitudini sono le grandi sconosciute della dottrina cristiana. Non si conoscono o si conoscono male.
Tutti ricordano indubbiamente la prima beatitudine, forse perché la più antipatica (“Beati i poveri…”). Per il resto è come se Gesù avesse proclamato beati i disgraziati della società e beatificato quelle condizioni di sofferenza e di dolore dalle quali ogni persona sana di mente si guarda bene dall’entrare e dove, se malauguratamente ci si trova, cerca di fare di tutto per uscirne.
Perché Gesù ha proclamato beati i poveri? E se l’ha fatto, perché i poveri sono beati? Perché poi vanno in paradiso? in quell’Aldilà nel quale anche i ricchi sono ammessi?
La risposta si trova nei vangeli. E la sorpresa è che mai Gesù ha proclamato beati i poveri, quelli che la società affama ed opprime. Gesù non è venuto a santificare la povertà, ma a eliminarla. Non è venuto per addolcire la tragedia della vita quotidiana dei poveri con la visione beatifica, ma a strappare i miseri dalla condizione di indigenza e di dolore.
Le beatitudini nei vangeli si trovano in Matteo e in Luca (Mt 5,1-10; Lc 6,20-23). Le forme sono diverse, ma il messaggio è identico. Mentre in Matteo l’invito è rivolto a quanti vogliono farsi poveri (Beati i poveri di spirito), in Luca Gesù si rivolge ai discepoli che hanno già fatto questa scelta (Beati voi poveri, Lc 6,20) e hanno lasciato tutto per seguirlo (Lc 5,11).


LE BEATITUDINI
(Mt 5, 3-10)

Le tre traduzioni:
letterale – teologica – di migliore comprensione

1 Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che decidono di vivere poveri,
perché questi hanno Dio come vero sovrano..
Beati quanti scelgono di condividere tutto quello che hanno:
perché sanno che Dio si prende cura di loro.

2a. Beati gli afflitti,
perché saranno consolati.
Beati gli oppressi,
perché questi saranno liberati
Beati gli oppressi,
perché terminerà la loro oppressione

3a. Beati i miti,
perché questi erediteranno la terra.
Beati i diseredati,
perché questi erediteranno la terra.
Beati gli emarginati,
perché ritroveranno dignità.

4a. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati quelli che hanno fame e sete di questa giustizia,
perché questi saranno saziati.
Beati quelli che vivono per realizzare la giustizia,
perché questi saranno soddisfatti.

5a. Beati i misericordiosi,
perché questi riceveranno misericordia.
Beati quelli che soccorrono,
perché questi verranno soccorsi da Dio.
Beati quelli che sono sempre pronti ad aiutare,
perché saranno sempre aiutati da Dio.

6a. Beati i puri di cuore,
perché questi vedranno Dio.
Beati i limpidi,
perché questi saranno intimi di Dio.
Beati quelli che sono sinceri,
perché saranno sempre in presenza di Dio.

7a. Beati i pacificatori,
perché questi saranno chiamati figli di Dio.
Beati i costruttori di pace,
perché questi Dio li riconoscerà come figli.
Beati quelli che lavorano per la felicità dell’uomo:
il Padre è con loro!

8a. Beati i perseguitati a causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati i perseguitati per la loro fedeltà,
perché questi hanno Dio per re.
Beati i perseguitati per la loro fedeltà al vangelo:
perché Dio si prende cura di loro!


XXX TEMPO ORDINARIO – 25 ottobre 2020
AMERAI IL SIGNORE TUO DIO E IL TUO PROSSIMO COME TE STESSO –
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM – Mt 22,34-40
(In quel tempo,) allora i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
*
Il vangelo di questa domenica presenta l’ultimo attacco da parte dei capi spirituali del popolo, i farisei, contro Gesù.
Gesù nel tempio aveva denunciato questi capi del popolo come ladri e assassini, ladri perché si sono impadroniti del popolo che era di Dio, e assassini perché l’hanno fatto con la violenza. Allora si scatena tutta una serie di attacchi contro Gesù tesi a delegittimarlo di fronte alla folla. Ma in realtà in ogni attacco è Gesù che ne esce vincitore e la folla è sempre più entusiasta di lui.
“Allora i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei,…”: il risultato dell’attacco dei sadducei che volevano ridicolizzare Gesù trattando della risurrezione è che le folle erano colpite dal suo insegnamento. Quindi più tentano di delegittimare Gesù, più la gente è entusiasta.
“…si riunirono insieme…” – qui l’evangelista cita il salmo 2,2 dove si legge che i re della terra si riunirono insieme contro il Signore e il suo Messia. I re della terra vogliono mantenere il dominio sul popolo e sono contro il Signore che invece lo vuole liberare.
“E uno di loro, un dottore della Legge…”: questa volta i farisei, visto com’era andato male quella volta che avevano presentato a Gesù il tributo di Cesare, questa volta si fanno forza con un esperto, un dottore della Legge, personaggio importante, uno di quelli la cui parola aveva lo stesso valore della parola di Dio.
“…lo interrogò per tentarlo”: la traduzione dice “mettere alla prova”, ma il verbo è “tentarlo”. Questo verbo appare per la prima volta al capitolo 4 come opera delle tentazioni del diavolo, del satana nel deserto. Poi sarà usato per definire le azioni dei farisei e dei sadducei: i capi spirituali del popolo, quelli che pretendevano di essere i più vicini a Dio, in realtà sono strumenti del diavolo, del satana.
Perché? Mentre il Dio di Gesù è amore che si mette a servizio, il loro è un potere che vuole dominare e chiunque sta a fianco del potere è uno strumento del diavolo.
Ebbene la tentazione è questa: “Maestro,…” : per al terza volta si rivolgono a Gesù con questo titolo, sempre in bocca ai suoi nemici, o alle persone che gli sono ostili;
“…nella Legge, qual è il grande comandamento?” : la domanda non è rivolta per apprendere, ma per condannare. Loro lo sanno qual è il grande comandamento, quello più importante: l’osservanza del riposo del sabato, perché è l’unico comandamento che anche Dio osserva. Dio e gli angeli il sabato, in cielo, non svolgono nessuna attività. L’osservanza di questo unico comandamento corrispondeva all’osservanza di tutta la Legge, la trasgressione di questo unico comandamento equivaleva alla trasgressione di tutta la Legge e per questo era prevista la pena di morte.
Ma perché rivolgono a Gesù questa domanda?
Perché Gesù ha un fare per lo meno disinvolto nei confronti dei comandamenti. Ignora bellamente il sabato, continua a fare le sue attività a favore dell’uomo, e anche quando il ricco gli chiese quali comandamenti osservare per ottenere la vita eterna, Gesù, nell’elenco che fece, omise i tre più importanti, quelli che erano privilegio esclusivo di Israele. I primi tre comandamenti e gli indicò quelli che erano patrimonio della cultura universale: “non ammazzare” “non rubare” “non commettere adulterio”.
Quindi la domanda è tesa a denunciare Gesù. Gesù spiazza ancora una volta il suo interlocutore, gli hanno chiesto qual è il comandamento più importante. Nella risposta Gesù non cita alcun comandamento, ma prende una frase con la quale iniziava il Credo di Israele: ‘”Ascolta Israele”, tratto dal libro del Deuteronomio, che è questa: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”.
Il Deuteronomio aveva al terzo posto “con tutte le forze”, che indicava i beni della persona, ma Gesù sostituisce le forze con “la tua mente”.
Perché Gesù omette le forze? Perché il Dio di Gesù non è un Dio che assorbe le energie degli uomini, ma è un Dio che agli uomini offre le sue, comunica le sue. Il Dio di Gesù non chiede, è un Dio che dà.
E afferma Gesù: “Questo è il primo e il grande comandamento”. Ma non era un comandamento. Gesù eleva al rango di comandamento l’amore a Dio totale.
Ma subito dopo Gesù aggiunge: “Il secondo poi è simile a quello”. E qui prende un precetto dal libro del Levitico, “Amerai l tuo prossimo come te stesso”. Per Gesù l’amore a Dio non è reale se non si traduce in amore per il prossimo.
E, conclude Gesù: “Da questi due comandamenti…”… Ripeto non sono comandamenti ma Gesù eleva l’amore a Dio che si manifesta poi nell’amore al prossimo a livello dei comandamenti più importanti, … “…dipendono tutta la Legge e i Profeti”.
Legge e Profeti è un espressione con la quale si indica la Bibbia, quella che noi chiamiamo Antico Testamento, appunto composto dalla Legge e dai Profeti.
Quindi ancora una volta una domanda tesa a delegittimare Gesù e Gesù ne esce vincitore, proclamando una nuova realtà con Dio, non più basata sull’osservanza dei comandamenti, ma sull’accoglienza e la pratica del suo amore.


SHEMÀ ISRAEL
Lo Shemà (Ascolta) non è una vera e propria preghiera, ma piuttosto una professione di fede. Esso va recitato due volte al giorno, nella preghiera del mattino e in quella della sera, e, privatamente, prima di coricarsi.
ASCOLTA, ISRAELE: IL SIGNORE È NOSTRO DIO, IL SIGNORE È UNO.
(a voce bassa) Benedetto il Nome glorioso del suo Regno in eterno e per sempre.
Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore.
Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.
Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte (Dt 6,4-9).
Ora, se obbedirete diligentemente ai comandi che oggi vi do, amando il Signore vostro Dio e servendolo con tutto il cuore e con tutta l’anima,

  • io darò alla vostra terra la pioggia al suo tempo: la pioggia d’autunno e la pioggia di primavera, perché tu possa raccogliere il tuo frumento, il tuo vino e il tuo olio.
  • Ti darò anche erba al tuo campo per il tuo bestiame. Tu mangerai e ti sazierai.
  • State in guardia perché il vostro cuore non si lasci sedurre e voi vi allontaniate, servendo dèi stranieri e prostrandovi davanti a loro. Allora si accenderebbe contro di voi l’ira del Signore ed egli chiuderebbe il cielo, non vi sarebbe più pioggia, il suolo non darebbe più i suoi prodotti e voi perireste ben presto, scomparendo dalla buona terra che il Signore sta per darvi.
  • Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi; le insegnerete ai vostri figli, parlandone quando sarai seduto in casa tua e quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai;
    le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte, perché siano numerosi i vostri giorni e i giorni dei vostri figli, come i giorni del cielo sopra la terra, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro (Dt 11,13-21).
    Il Signore parlò a Mosè e disse:
    «Parla agli Israeliti dicendo loro che si facciano, di generazione in generazione, una frangia ai lembi delle loro vesti e che mettano sulla frangia del lembo un cordone di porpora viola. Avrete tali frange e, quando le guarderete, vi ricorderete di tutti i comandi del Signore e li eseguirete;
    non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri occhi, seguendo i quali vi prostituireste.
    Così vi ricorderete di tutti i miei comandi, li metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio.
    Io sono il Signore, vostro Dio, che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto per essere il vostro Dio. Io sono il Signore, vostro Dio» (Nm 15,37-41).
    Associazione “il filo – gruppo laico di ispirazione cristiana” – Napoli www.ilfilo.org

Il primo brano (Dt 6, 4-9) afferma:
• l’unità di Dio e l’impegno ad amarlo totalmente
• l’obbligo di ripetere lo Shemà due volte al giorno e di insegnare la Torà ai propri figli
• il precetto dei Tefillin (filatteri, astucci quadrati di cuoio)
• il precetto della Mezuzà / stipite (astuccio con lo Shemà alla porta di casa)

Il secondo brano (Dt 11, 13-21) affronta:
• il problema della ricompensa e della punizione in rapporto all’osservanza o alla trasgressione del precetto

Il terzo brano (Nm 15, 37-41) impone:
• l’obbligo degli zizzit (le frange del mantello)
• il ricordo dell’uscita dall’Egitto
*
Nella preghiera pubblica la recita dello Shemà è preceduta e seguita da particolari benedizioni.
Le parole dello Shemà (in ebraico) sono 245. Ripetendone l’ultima espressione diventano 248, tante quante sono, per tradizione, le membra del corpo umano, a ricordare che bisogna aderire alle parole dello Shemà con tutta la propria persona.


XXIX TEMPO ORDINARIO – 18 ottobre 2020
“RENDETE A CESARE QUELLO CHE È DI CESARE ED A DIO QUELLO CHE È DI DIO”
Commento al Vangelo di p. José María CASTILLO Mt 22, 15-21
[In quel tempo,] i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

  1. Le relazioni tra la religione e la politica in genere sono state relazioni intense e di convenienza. Soprattutto in questioni economiche. Perché il potere religioso ed il potere politico hanno avuto bisogno reciprocamente l’uno dell’altro e si sono favoriti in tutto quello che è stato possibile per loro. In particolare, tante volte è successo che il potere politico ha favorito il potere religioso mediante donazioni o esenzioni fiscali; ed a sua volta il potere religioso ha appoggiato il potere politico “legittimando” le decisioni del re, dell’imperatore, del capo dello Stato, etc. Questo è abbondantemente noto.
  2. Al tempo di Gesù, come è noto, i giudei dovevano pagare le tasse ai romani. Ossia, il popolo ebraico non solo doveva sopportare l’umiliazione di vedersi dominato dalla grande potenza dell’Impero, ma la povera gente si vedeva anche obbligata a pagare le tasse all’Imperatore. Come è logico, la gente faceva resistenza nel pagare quelle tasse, che non erano utilizzate per migliorare le condizioni di vita dei giudei, ma per finanziare i legionari romani che si aggiravano per le strade di tutti i popoli della Palestina. Ecco perché fare una domanda a Gesù sul tema del pagamento della tassa significava metterlo in difficoltà. Se diceva che bisognava pagare, si scontrava con il popolo e se diceva di no, si scontrava con i militari romani. La domanda dei farisei era una polpetta avvelenata.
  3. La famosa risposta di Gesù ha messo il dito nella piaga: quando dice che dovevano dare a Cesare la tassa ed a Dio quello che Dio voleva, Gesù voleva dire: il problema che abbiamo qui non si risolve rifiutando di pagare la tassa. Questo problema si risolve il giorno in cui date a Dio il culto che merita. Che non era il culto che si dava nel tempio con il consenso di Roma, mentre i sacerdoti dicevano alla gente che dovevano pagare a Roma quello che chiedeva. Il culto che Gesù voleva non era il culto del tempio, ma il culto “in spirito e verità” (Gv 4, 21-24). E questo culto è il culto della libertà di fronte ai poteri di questo mondo, senza compromessi ed intrallazzi, ma con la libertà di chi dice ad ognuno quello che gli deve dire. Ed a questo i farisei non erano disposti.

Ernesto BALDUCCI da: “Il mandorlo e il fuoco” – vol. 1
…Nel tempo che viviamo esiste il pericolo di un prepotere di Cesare inteso come assolutizzazione del momento politico sulla coscienza.
Il fatto positivo del Vangelo è che esso non offre un progetto di vita politica, nonostante tutti i tentativi di fare del Vangelo un insieme di premesse da cui dedurre via via sistemi politici cristiani; tentazione, come sappiamo, tutt’altro che finita, sempre risorgente.
Quando Gesù rimanda i suoi interroganti dicendo che bisogna pagare il tributo a Cesare, vuol riconoscere che esiste un ambito del provvisorio, del quale l’uomo è responsabile. Le situazioni storiche son così diverse nello spazio e nel tempo, che non è possibile che vi sia una risposta univoca permanente: stabilire le leggi economiche e stabilire gli ordinamenti giuridici è compito dell’uomo in quanto essere storico. Non dunque in quanto tocca, dal profondo di se stesso, i limiti del tempo e si apre agli interrogativi drammatici della superiorità dell’uomo su tutti gli ordinamenti terreni, ma in quanto è artefice e responsabile degli ordinamenti terreni. Ecco la laicità totale della politica.
È una laicità che non si pone come termine di raffronto con l’altro potere che è di Dio, ma che investe l’uomo in tutta la sua esistenza terrena. Non c’è la società di Dio sulla terra: c’è la società dell’uomo. E questa è la forza costante della parola evangelica, la sua novità assoluta nei confronti di qualsiasi altra posizione religiosa. Perché l’aver dichiarato l’autonomia dell’uomo all’interno delle scelte politiche ha significato una non squalificazione dell’esistenza politica, tentazione sempre ritornante delle coscienze religiose, non maturate nel Vangelo, abbandonate alla spontaneità degli impulsi interiori che mirano a squalificare il senso e l’opera terrena dell’uomo.
L’opera terrena è opera importante. È in essa che noi decidiamo anche del nostro destino eterno. […] Non ha senso dividere gli uomini della politica fra uomini di Dio e uomini senza Dio, perché l’attività politica si qualifica in rapporto ai concetti di liberazione e di pace che essa mette in atto. Anche la politica è di Dio, in quanto essa ha come suo fine intrinseco, naturale, l’uomo, il bene comune del genere umano.
Nessuno si sottrae al potere di Dio, nemmeno Ciro, nemmeno i capi di Stato, nemmeno i parlamenti, nemmeno il cittadino sovrano. Tutto è di Dio perché Dio nella nostra fede non si pone come alternativa all’uomo. Egli ha stabilito come tabernacolo della sua gloria l’uomo vivente.
E per sapere se un uomo vivente è il Messia di Dio, non devo vedere se porta le insegne cristiane, la croce sulla corona, se paga le decime, devo vedere se aiuta l’uomo, se libera l’uomo, se la sua attività promuove la crescita dell’uomo e soprattutto la liberazione dei deboli e degli oppressi. Questo è il segno di Dio nella realtà politica, il luogo fisico di identità del valore messianico, e quindi cristianamente positivo, dell’agire politico.

E per quanto riguarda il potere di Dio – ma la parola « potere» qui è impropria – esso investe le decisioni della libertà, della coscienza. Il luogo in cui l’uomo è immagine di Dio è la coscienza, o la sua capacità di pronunciarsi in modo autonomo davanti alle scelte fondamentali della vita e dinanzi alle proposte fondamentali della storia in cui è immerso.
La coscienza è il luogo in cui noi ci riconosciamo come immagine di Dio. Ivi non può nulla il potere politico. Dinanzi al principio della fedeltà dell’uomo alla propria coscienza ogni legge perde dignità morale quando diventa coattiva.
Nella dottrina tradizionale, l’aver fatto del potere pubblico un criterio di mediazione della volontà di Dio, per cui il cristiano devoto aveva l’obbligo di obbedire alle autorità con la presunzione che essa ha sempre ragione perché ne sa di più, perché capisce meglio anche quando dichiara una guerra, l’aver fatto questo ha significato aver cancellato nell’uomo la dignità di Dio e la dignità umana.


ANNO A – 20 settembre 2020,
XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO, Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20c-24.27°; Mc 20,1-16
Ad ognuno secondo il bisogno – Alberto Maggi, Tratto da: Adista Notizie n° 30 del 01/08/2020. Matteo 20,1-16
(In quel tempo,)
Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono.
Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro.
Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”.
Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

Nella prima delle tre parabole aventi come tema la vigna (Mt 21,28-32; 21,33-41), evidente richiamo a Israele (Is 5,7; Sal 80,8), Gesù vuol far comprendere ai suoi discepoli che nel comportamento del padrone della vigna, si raffigura l’agire del Padre.
Nella terra d’Israele esistevano grandi latifondi, e i braccianti venivano assoldati giorno per giorno, secondo le necessità del lavoro. L’urgenza e l’importanza del lavoro da fare, è sottolineata dal fatto che, anziché inviare il suo fattore, è il padrone stesso che, all’alba, va in cerca di operai.
La paga accordata dal padrone della vigna, «un denaro al giorno», era quella abituale per i giornalieri. «Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza inoperosi…» (Mt 20,3). La presenza di questi uomini sulla piazza, luogo di raccolta dei braccianti, alle nove del mattino, indica che la loro inoperosità non è dovuta alla pigrizia, ma alla mancanza di lavoro, e sono disponibili ad accettare qualsiasi attività che venga loro richiesta.
Questa volta non viene accordata la paga, ma promesso «quello che è giusto », cioè un compenso stabilito in base al tempo lavorato. La proposta di lavorare nella vigna è ripetuta varie volte durante la giornata, verso mezzogiorno, le tre e persino, verso le cinque, al tramonto, quando normalmente ormai il lavoro terminava, e il contributo lavorativo degli ultimi assoldati, di fatto è stato quasi nullo. La loro chiamata si deve più al desiderio del padrone di farli lavorare, che all’effettivo bisogno del loro lavoro.
Al termine della giornata lavorativa era distribuita la paga, secondo quanto prescritto dalla Legge: «Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole» (Dt 24,15; Lv 19,13), e il padrone chiede al suo fattore di iniziare dagli ultimi, che sorprendentemente sono trattati come era stato pattuito con i primi, ricevendo il salario di un’intera giornata lavorativa.
In realtà, costoro più che una paga, ricevono un regalo, in quanto il loro apporto è stato minimo, se non nullo. Indubbiamente non hanno meritato il denaro, che veniva corrisposto per un’intera giornata di lavoro, e il loro compenso è dovuto alla generosità del padrone della vigna.
Se coloro che hanno lavorato il minimo, hanno ricevuto un denaro, è logico dedurre che quanti avevano lavorato fin dall’alba, pensassero di ottenere più di quello che era stato concordato, per questo rimangono male ricevendo la stessa paga degli ultimi, e reclamano, mormorando contro il padrone.
E questi, «rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo come a te» (Mt 20,13-14). Il padrone della vigna non si comporta in maniera ingiusta, ma con grande generosità, dettata dalla sua bontà («perché io sono buono»). Non toglie nulla di quanto concordato con gli operai della prima ora, ma intende concedere lo stesso salario agli ultimi.
Con l’immagine degli operai della prima ora, Gesù allude ai Giudei che avevano stipulato un’alleanza con Dio basata su un contratto. Essi dovevano meritare quel che Dio concedeva. Con Gesù tutto questo cambia. L’amore di Dio non viene concesso per i meriti degli uomini, ma per la generosità del Padre.
Gli operai dell’ultima ora evidentemente non meritano la paga di un’intera giornata. Questa non viene loro data per i meriti acquisiti, ma per il bisogno che hanno.
Gesù fa intravedere la nuova alleanza, dove la Legge è sostituita dall’amore gratuito del Padre, che non agisce in base alle virtù degli uomini, ma ai loro bisogni, perché il suo amore non è un premio ma un regalo.


“GLI ULTIMI SARANNO PRIMI E I PRIMI SARANNO ULTIMI”
Commento al Vangelo di p. José María CASTILLO
Domenica 20.09.2020

Mt 20, 1-16
L’interpretazione più corretta di questa parabola ci spiega come è il comportamento di Dio con gli uomini. Dio non ci tratta secondo i criteri logici della produttività (che si misura con le ore di lavoro), ma con le motivazioni che sgorgano da un cuore buono e generoso. Il cuore, che è così profondamente buono, che privilegia gli ultimi, i più disgraziati della vita, quelli che la logica degli uomini non privilegia mai.
Ma questa parabola ci rimanda anche ad un’altra lettura, secondo la quale le leggi dell’«economia umana», perché sia veramente umana, devono prendere ad esempio i progetti dell’«economia divina». L’economia non è una scienza esatta. Ed è stata sconvolta fino ad eccessi che non abbiamo mai potuto immaginare. L’economia, così come funziona, è la scienza (?) che privilegia i privilegiati e affonda sempre più quelli che già sono affondati. Da qui derivano gli squilibri crescenti e scandalosi che conosciamo. E che sopportiamo quando si distribuiscono i guadagni ed i benefici che producono la terra ed il lavoro umano.
Urge trovare e mettersi a praticare altre forme di gestione dell’economia mondiale. E, se crediamo nel Vangelo, dobbiamo smetterla con lo scandalo che ci sono tante persone pie, o amiche dei pii, che non permettono che gli ultimi guadagnino quello che loro guadagnano e che vivano come loro vivono.
Ci può essere una contraddizione più grande e anche una spudoratezza più grande? Anche in questo il Vangelo è norma di sapienza e criterio determinante di umanità.
È l’umanità che si nota nel tipo di padrone, che incarna il protagonista di questa parabola. È un padrone sconcertante. Si tratta, infatti, di un padrone che dalla mattina alla sera offre posti di lavoro. Ed anche un padrone che, nel momento di pagare i suoi lavoratori, inizia dagli «ultimi». Perché quello che gli importa non è la produttività, ma l’uguaglianza di tutti. Senza fare preferenze, favoritismi o squilibri che generano tensioni, risentimenti e odi. I padroni che si adeguano alla legislazione lavorativa, agiranno «legalmente».
Ma non risolvono il vero problema del rendimento lavorativo e della produttività, che deriva da lavoratori che si sentono sicuri e eccitati dal lavoro che fanno.


PAPA FRANCESCO
13.09.2020

La risposta cristiana alla pandemia e alle conseguenti crisi socio-economiche si basa sull’amore, anzitutto l’amore di Dio che sempre ci precede (cfr 1 Gv 4,19). Lui ci ama per primo, Lui sempre ci precede nell’amore e nelle soluzioni.
Lui ci ama incondizionatamente, e quando accogliamo questo amore divino, allora possiamo rispondere in maniera simile. Amo non solo chi mi ama: la mia famiglia, i miei amici, il mio gruppo, ma anche quelli che non mi amano, anche quelli che non mi conoscono, anche quelli che sono stranieri, e anche quelli che mi fanno soffrire o che considero nemici (cfr Mt 5,44). Questa è la saggezza cristiana, questo è l’atteggiamento di Gesù.
E il punto più alto della santità, diciamo così, è amare i nemici, e non è facile. Certo, amare tutti, compresi i nemici, è difficile – direi che è un’arte! Però un’arte che si può imparare e migliorare.
L’amore vero, che ci rende fecondi e liberi, è sempre espansivo e inclusivo.
Questo amore cura, guarisce e fa bene. Tante volte fa più bene una carezza che tanti argomenti, una carezza di perdono e non tanti argomenti per difendersi.
È l’amore inclusivo che guarisce. Dunque, l’amore non si limita alle relazioni fra due o tre persone, o agli amici, o alla famiglia, va oltre. Comprende i rapporti civici e politici (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica [CCC], 1907-1912), incluso il rapporto con la natura (Enc. Laudato si’ [LS], 231).


Perdono e condono
Alberto Maggi , 13.09.2020
Mt 18,21-35 In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Di tutto il discorso di Gesù sullo scandalo causato dall’ambizione dei discepoli, che gareggiano a chi è più importante (Mt 18,1-20), Pietro è rimasto colpito dal comportamento che devono tenere i componenti della comunità in caso di conflitto, e chiede un limite oltre il quale non può più essere concesso il perdono (Mt 18,21).
La legislazione rabbinica concedeva un massimo di tre volte (Yoma 5.13b), Pietro raddoppiando, crede di abbondare, e pone un limite (sette volte) che, una volta superato, esoneri dall’obbligo del perdono. La risposta di Gesù si richiama, ma con opposto significato, al crudele cantico di Lamech (“Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette”, Gen 4,24) e, alla vendetta scatenata, contrappone il perdono senza limiti. In un contesto dove si parla di perdono tra fratelli, il monito di Gesù, con il richiamo alle parole del vendicatore di Caino, assassino di suo fratello Abele, è molto chiaro: la mancanza di perdono conduce alla morte della comunità.
Nella risposta di Gesù l’accento non è posto sulla quantità di volte in cui concedere il perdono, ma alla qualità dello stesso, cioè incondizionato. Per farlo comprendere, Gesù narra di «un re che volle fare i conti con i suoi servi» (Mt 18,23), e uno era debitore di ben diecimila talenti.
Il talento, la maggior unità monetaria del tempo, valeva una trentina di chilogrammi d’oro, e diecimila talenti sono una cifra dal valore incalcolabile. In preda alla disperazione, il servo chiede un rinvio («abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa», Mt 18,26), anche se con un debito talmente spropositato, gli sarebbe mancato il tempo per restituirlo. Ma la bontà del suo signore sorpassa la richiesta di dilazione del servo, e glielo condona per compassione, azione che mira ad alleviare la causa della sofferenza e a restituire vita.
La gioia del servo di veder condonato un debito, che in nessun modo avrebbe potuto restituire, non si traduce però in generosità nei confronti di chi gli è debitore di una somma modesta, e «appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: Restituisci quello che devi!» (Mt 18,28).
Gesù sottolinea la sproporzione tra i diecimila talenti e i cento denari (circa tre mesi di paga di un operaio). Mentre la compassione del signore ha restituito la vita al suo debitore, l’impietoso servo gliela toglie (soffocava), e non solo non vuole esaudire il suo debitore, ma lo fa incarcerare.
Il re, condonando il debito al suo servo, lo aveva reso padrone di se stesso, regalandogli la vita intera, ma costui è incapace di concedere qualche mese al suo debitore. Come il servo aveva trattato il suo debitore, così ora viene trattato dal suo re, con una pena definitiva, conseguenza del suo atteggiamento spietato.
Il re, che non aveva sgridato il funzionario per il suo debito smisurato, ora lo rimprovera per l’atteggiamento disumano tenuto verso il suo compagno, e lo definisce «maligno», lo stesso termine adoperato nel Padre nostro, nell’ultima petizione «ma liberaci dal maligno» (Mt 6,13).
La mancanza del condono dei debiti, e del perdono, minano l’esistenza della comunità.
Tratto da: Adista Notizie n° 30 del 01/08/2020


XXI TEMPO ORDINARIO – 23 agosto 2020
TU SEI PIETRO E A TE DARO’ LE CHIAVI DEL REGNO DEI CIELI
Commento al Vangelo di p. José María CASTILLO
Mt 16, 13-20
Giunto poi Gesù nella regione di Cesarea di Filippo, si mise ad interrogare i suoi discepoli: «Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo?». Essi risposero: «Chi dice che sia Giovanni il Battista, chi Elia, chi Geremia o uno dei profeti». Dice loro: «Ma voi chi dite che io sia?». Prese la parola Simon Pietro e disse: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Rispose Gesù: «Beato sei tu, Simone figlio di Giona, poiché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. Io ti dico: tu sei Pietro e su questa roccia edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Ti darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che avrai legato sulla terra resterà legato nei cieli e tutto ciò che avrai sciolto sulla terra resterà sciolto nei cieli». Poi comandò ai discepoli di non dire a nessuno che egli era il Cristo.

  1. Come è ben noto, in questo testo del vangelo di Matteo le parole dette da Gesù a Pietro sul significato del suo nome, sull’edificazione della Chiesa e sui suoi poteri (Mt 16, 18-19), sono state (e continuano ad essere) motivo di analisi e di discussioni tra gli specialisti. Perché è strano che parole così importanti non appaiano negli altri vangeli che riportano lo stesso passo (Mc 8, 27-30; Lc 9, 18-21). Perché la parola greca pétros non esisteva come nome prima del cristianesimo (U. Luz). E perché la parola ekklesía = «assemblea» si è iniziata ad usare tra i cristiani dopo la risurrezione.
  2. Ma di fatto questo testo durante il Medioevo è stato utilizzato come vangelo delle messe per l’ordinazione episcopale (Y. Congar). Questo vuole dire che in quasi tutto il primo millennio la Chiesa è stata cosciente del fatto che queste parole di Gesù, se è stato lui a pronunciarle così come ci sono giunte fino a noi, si riferivano a tutti gli apostoli, dato che Gesù ha fatto la domanda ai Dodici. Però Pietro è stato il portavoce dei Dodici.
  3. Questo vangelo ci ricorda due cose:
    1) La Chiesa fin dai suoi primi tempi è cosciente del fatto che è «apostolica», cioè procede dalla fede a noi trasmessa dagli apostoli. E in questo senso è «gerarchica», in quanto l’episcopato proviene dall’«apostolato».
    2) Nel Nuovo Testamento emerge la figura di Pietro. Si è preso quest’argomento per accettare il ruolo speciale del vescovo di Roma nel governo della Chiesa.
  4. Nel sec. V papa Gelasio distingueva tra autorità e potestà.
    L’«AUTORITÀ» riguardava i pontefici, la «POTESTÀ» era propria degli imperatori (Y. Congar, cf. Thiel, Epist. Rom. Pont., 350-351). Secoli più tardi, a partire da Gregorio VII (sec. XI) il papa riferisce a sé il concetto e l’esercizio della potestà. Nel senso di una monarchia totale (nihil ab eius potestate substraxit = “nulla sfugge alla sua potestà”) (Reg. IV,2; Thiel, 445 e 562). E’ evidente che Gesù non ha pensato ed ancor meno concesso una simile potestà.
    La «potestà piena, universale ed immediata», della quale parlano i Concili Vaticano I e II (LG 22), dovrebbe essere chiarita e precisata. Per il bene della Chiesa intera ed a garanzia dell’autorità e della credibilità del papato.

La pietra scartata

ANNO A, 23 agosto 2020, XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO;
Is 22,19-23; Sal 137; Rm 11,33-36; Mt 16,13-20
Nino Fasullo 10/07/2020, 18:12
Tratto da: Adista Notizie n° 28 del 18/07/2020
La scena del 27 marzo 2020 ha colpito molti. La grande piazza di san Pietro e le vie deserte della Città eterna erano l’immagine del disastro indotto dal Covid19: simile alle scene fumanti de La strada di McCarthy col bambino che guida l’uomo “tenendolo per mano”.
Al centro c’era Francesco, il vescovo povero e claudicante, che segnava le linee del cristianesimo che ricomincia sulla Parola di Gesù di Nazaret.
Scene povere, assai diverse e lontane dai fatui trionfi del potere clericale che costringono a vivere la fede di stenti, a pane e acqua. Ma è la norma, il destino cristiano.
«Più avanti la strada correva lungo un crinale, con i boschi inariditi che digradavano da una parte e dall’altra. Nevica, disse il bambino. Guardò il cielo. Un unico fiocco grigio che planava leggero. Lo prese in mano e lo guardò disfarsi come fosse l’ultima ostia della cristianità» (McCarthy).
La solitudine di Francesco non è parte di un rito. Rinvia alla «pietra scartata dai costruttori», alla «testata d’angolo» del cristianesimo nuovo: quello iniziato «dopo tre giorni» dal Venerdi Santo delle chiese chiuse.
Forse è possibile accostare la scena di piazza san Pietro a quella inedita di Cesarea di Filippo (Mt 16,13-20), in cui Gesù invita i discepoli a riflettere con lui e su di lui partendo dalle opinioni della gente sulla sua persona: «Chi dice la gente che io sia?».
I discepoli riferiscono di tre figure di profeti: Giovanni Battista, Elia, Geremia e altri. Ma non è tutto. Intanto è utile sottolineare che è stato Gesù a prendere l’iniziativa di sentire i discepoli sui pareri della gente. Forse vuole discutere con loro proprio su di sé; o vuole sollecitare in essi un qualche spirito critico per farli uscire dagli stereotipi religiosi o sociali che possono impedire o ritardare una più autentica, filiale confidenza in Dio.
I discepoli assistono a non pochi suoi gesti miracolosi; a parabole e discorsi fortemente eversivi sul piano non solo etico; a frequenti polemiche con i capi del tempio e delle sinagoghe: con i presuntuosi scribi, farisei e sadducei; in breve: con gli esponenti del potere religioso, civile e culturale che avevano “religiosamente” deciso la sua soppressione.
Chi sa in quante occasioni Gesù aveva risposto, rassicurante, alle domande dei discepoli che gli raccomandavano prudenza e circospezione….
Ma perché Gesù voleva conoscere le opinioni della gente sulla sua persona? Per farli crescere, anche religiosamente, liberi dal credulismo o bigottismo ingenuo che ingoia senza masticare come si fa con le pillole amare?
Sarebbe interessante conoscere qualche dettaglio in più di ciò che Gesù e i suoi si son detti in quell’ora (o in più ore?) passata a Cesarea di Filippo. Invece nulla, o quasi. Perché in realtà, Matteo allunga il discorso di Gesù, che passa ai discepoli la domanda più impegnativa – diretta, personale e spiazzante: «Ma voi: voi chi dite che io sia?» – dopo la quale irrompe, con l’intervento di Pietro, l’inatteso: il gruppo, la comunità, la Chiesa rappresentati proprio da Pietro.
È come se Pietro avesse tolto la parola ai condiscepoli e li mettesse da parte e si sostituisse ad essi: «Tu sei il Cristo, – disse – il figlio del Dio vivente». Il “voi” è scomparso. Gesù…pare non vi faccia caso. Approva Pietro. Ma con un notevole avvertimento: «Beato se tu, Simone, figlio di Giovanni, perché carne e sangue non te lo hanno rivelato, ma il Padre mio nei cieli». Parole cruciali, che nella storia del cristianesimo saranno un pilastro. Ma ciò che Gesù dice qui a Pietro non deve riguardare anche la comunità degli altri discepoli…?
Direttore della rivista palermitana Segno; organizzatore delle “Settimane Alfonsiane”, Nino Fasullo è saggista e autore, tra l’altro, de Il pastore di Brancaccio. Don Puglisi la chiesa la mafia (Il Palindromo 2018, disponibile presso Adista)


LA FEDE DELLA DONNA CANANEA – 20° domenica T.O. – 16.08.2020, Mt 15,21 – 28

In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

Il brano evangelico di oggi riflette queste due tendenze. Da una parte Gesù insiste nel dire che la sua missione è per il popolo di Israele; dall’altra parte, nel rispondere con la sua misericordia onnipotente alla invocazione della donna pagana, sottolinea che l’appartenenza alla salvezza si ha solo con la fede. E così i confini etnici vengono annullati.
Questa ambivalenza è un grande messaggio per noi. Anche noi siano interni a un mondo chiuso, pieno di presunzione che riteneva di aver elaborato per tutte le genti i modelli di vita, di elevazione, di progresso.
E questi modelli sono stati imposti lontano dai nostri confini, come un giogo, a popoli diversi, e molto spesso sono stati imposti in nome di Gesù Cristo come condizioni di salvezza.
Siamo responsabili di una sopraffazione che è tutt’altro che finita. Se un cristiano tipico guarda attorno a sé vede molte barriere erette dalla sua presunzione, non dalla volontà di Dio. Intanto LE BARRIERE DELLA RAZZA. La nostra è apparsa la religione dei bianchi portatori di civiltà e di salvezza eterna ai popoli non bianchi.
UNA BARRIERA DI CULTURA. Abbiamo portato un Vangelo legato ad una cultura “nostra”, profondamente estranea alla cultura indigena dei popoli lontani.
UNA BARRIERA DI CLASSE, perché gli sfruttati, estranei a questa cultura egemonica, hanno concepito odio verso una religione che giustifica il possesso e i rapporti di dipendenza e impone agli esclusi atteggiamenti di umiltà e di ossequio.
Ci sono molti che considerando intangibili tante tradizioni, avvertono sentore di eresia, di deviazione, di disobbedienza. Essi difendono una religione carnale. Se si va a fondo si vede che difendono un loro interesse almeno di sicurezza.
Non viviamo solo di denaro, viviamo anche delle sicurezze interiori, che comportano alcuni punti di riferimento, senza dei quali entriamo nello smarrimento. Siamo divisi – almeno – da questa linea di divaricazione. Qual è la risposta che ci viene dal messaggio della Parola di Dio?
La risposta è quella che dà il Signore alla cananea: « La tua fede ti ha salvato! ». Alla cananea non viene chiesto niente altro che la fede. Ed è la risposta che dà Paolo: ai gentili non viene chiesto altro che la fede in Gesù Cristo; il resto appartiene alla legittima diversità.
E quindi Paolo non pone nessuna condizione, né religiosa, né culturale, né dogmatica, né morale, ma solo quella della fede in Gesù Cristo, perché di fronte alla fede «tutti siamo chiusi nella medesima disobbedienza» per usare a tutti misericordia.
Solo la fede ci salva. Tutte le divisioni che ancora permangono – e Dio solo sa come sono pesanti! – vanno abolite perché trionfi l’unità del disegno di Dio che pone – come condizione di partecipazione – soltanto la fede.
Ed anche quando diciamo «la fede », dobbiamo fare una distinzione. Certo, la fede esplicita – quella che si manifesta, ad esempio, in un’assemblea come la nostra, nella quale noi recitiamo comuni parole di fede – è il punto di arrivo della manifestazione di questo disegno di amore di Dio per tutte le creature. Ma la fede si ha ogni qualvolta si cerca – come dice Isaia – il diritto e la giustizia.
Tutti coloro che aspirano al diritto e alla giustizia, anche se non arrivano a riconoscere che in Gesù Cristo questa aspirazione ha avuto il suo sigillo supremo, si muovono nello stesso cammino. Perciò il Regno di Dio ha confini immensi, quanto l’umanità, mentre la Chiesa visibile ha confini stretti.
Guai se diventano confini soffocanti! Invece di essere i confini del segno visibile, che deve parlare ai popoli della promessa di Dio, diventano barricate: chi sta dentro è salvo, chi è fuori è dannato, secondo una vecchia teologia terroristica!
Ernesto Balducci da: “Il mendorlo e il fuoco” vol. 1


Il prossimo lontano

ANNO A, 16 agosto 2020, XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO; Is 56,1.6-7; Sal 66; Rm 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28
Giuseppe Morotti 10/07/2020, 18:08
Tratto da: Adista Notizie n° 28 del 18/07/2020
Mt. 15,21-28: «Ma anche i cagnolini mangiano delle briciole»; «Donna, grande è la tua fede».
Il mio professore di esegesi, commentando questo passo, affermava che Gesù aveva proferito queste parole discriminanti, proprie di ogni israelita ortodosso di allora, solo per mettere alla prova la fede della Cananea. Pensava così di fare onore a Gesù salvaguardando intatta la sua onnisciente santità infusagli fin dalla nascita.
Oggi l’esegesi si compiace nel mostrarci un Gesù la cui coscienza di messia, venuto ad annunciare un Dio Padre di tutti, egli l’abbia raggiunta gradatamente, mettendosi anche umilmente in ascolto degli altri anche se “pagani”.
Ne risulta un Cristo Gesù a noi più vicino, carico di una figliolanza non ricevuta ex machina, ma che si è guadagnato sul campo, nel suo farsi sempre più umano. Attraverso scelte responsabili, coraggiose, controcorrente, fino a morirne; mettendosi continuamente in ascolto di tutti coloro che incontrava. Dietro quel «Donna, grande è la tua fede», in Gesù è balenata una sorprendente illuminazione e una conseguente presa di coscienza della propria missione. Egli si libera definitivamente di Yhwh, il Dio esclusivo di Israele, per rimettere al suo posto il Padre di tutti, nessuno escluso. Non ci devono più essere “eletti” da una parte e “cani infedeli” dall’altra.
Mediante la fede della Cananea, muore Gesù ebreo e risuscita Gesù Cristo fratello universale e cosmico. Mediante l’incontro con questa donna, per giunta straniera, vi è da parte di Gesù anche una radicale reinterpretazione del comandamento fondamentale del popolo di Israele “Ama Dio… e il prossimo tuo come te stesso”.
È facile amare il proprio “prossimo” se questo prossimo lo riduci a colui che ti è vicino, colui che la pensa come te, che è simile a te, che fa parte della tua cerchia. In quel «donna, grande è la tua fede», c’è da parte di Gesù il raggiungimento della piena consapevolezza che il “prossimo” va inteso in tutt’altro modo, va esteso ai lontani, che non fanno parte della tua cerchia, della tua religione, della tua cultura, a colui che ti è diverso, estraneo. Va esteso fino a coinvolgere il tuo stesso avversario, il tuo persecutore, il tuo nemico, come Gesù stesso poi lo esprimerà nella parabola del Buon Samaritano e soprattutto nel suo morire in croce perdonando e pregando per i suoi crocifissori. È significativo il fatto che sia stato proprio il centurione romano, straniero e pagano, a riconoscerlo come “Figlio di Dio” nel bel mentre il velo del tempio si squarciava.

Quel «donna, grande è la tua fede», letto all’interno dei rapporti familiari, significa per me non solo amarli e rispettarli in quello che in loro mi è congeniale, ma anche negli aspetti in cui da me si differenziano, mi mettono in discussione, e perfino in quel loro lato misterioso che io non riuscirò mai a penetrare, ma sono comunque tenuto a rispettare. Fino a riuscire a capire che è proprio questa loro a volte indisponente dissomiglianza a mantenermi continuamente in cammino senza fossilizzarmi.

Già piccolo fratello del Vangelo di Charles de Foucauld, Giuseppe Morotti vive con la sua famiglia a Bolzano e anima incontri di meditazione e di preghiera sui mistici cristiani e musulmani. Il suo ultimo libro si intitola Per una nuova spiritualità (ed. la Parola, disponibile presso Adista)


VIII TEMPO ORDINARIO – 2 agosto 2020
TUTTI MANGIARONO E FURONO SAZIATI
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Mt 14, 13-21
[In quel tempo],
avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte.
Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare».
Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare».
Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!».
Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene.
Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
*
L’episodio della condivisione dei pani e dei pesci è talmente importante che tutti e quattro gli evangelisti lo riportano. Lo riportano perché in questo episodio raffigurano e anticipano la cena eucaristica. Quindi tutto il brano è un anticipo – ed è una comprensione – del significato profondo della cena eucaristica di Gesù. Per questo l’evangelista mette delle indicazioni nel testo per far comprendere che non sta narrando un semplice fatto di cronaca, ma sta trasmettendo una verità teologica. Ecco perché in questo episodio di Matteo 14, 13-21 l’evangelista indica lo stesso momento dell’ultima cena.
Sul far della sera si avvicinano i discepoli… C’è la folla che ha seguito Gesù e che ha iniziato il nuovo esodo, la nuova liberazione, e ci sono i discepoli, che non sono solidali con la gente e non capiscono, perciò chiedono a Gesù di licenziare la folla perché vada a comprarsi da mangiare. Non hanno ancora accolto lo spirito delle beatitudini, lo spirito della condivisione.
E Gesù replica – e qui c’è l’indicazione profonda del significato dell’eucaristia – “«Non occorre che vadano»”, e ad essi che hanno usato il verbo “comprare” Gesù replica con il verbo “dare”. C’è un motivo: non c’è da comprare, ma c’è da condividere. La particolare forma verbale adoperata dall’evangelista ha un significato particolare. Gesù dice: “«Voi stessi date loro da mangiare»”, letteralmente “date a loro voi da mangiare”. E’ il significato dell’eucaristia.
Nell’eucaristia Gesù si fa pane, alimento di vita, perché quanti lo accolgono siano capaci a loro volta di farsi pane, alimento di vita per gli altri. Non basta dare il pane alla gente, ma occorre farsi pane per la gente. Ecco perché l’evangelista usa quest’espressione: “Date loro voi da mangiare”. Questo è il significato dell’eucaristia. Nell’eucaristia non si dà soltanto del pane, ma ci si fa pane per gli altri.
I discepoli replicano che quello che hanno è insufficiente, infatti dicono che non hanno che “«Cinque pani e due pesci»”. Raggiungono il numero sette che, nella simbologia ebraica, significa tutto quello che hanno. Il significato è questo: quando si trattiene per sé quello che si ha sembra insufficiente; quando invece si condivide si crea l’abbondanza. Infatti Gesù chiede di portarglieli i 5 pani e i due pesci; ci sono le indicazioni del significato dell’eucaristia.
Per prima cosa Gesù ordina alla folla di sdraiarsi. Perché Gesù deve comandare? Comanda perché c’è resistenza. Le persone amano essere sottomesse, ma non amano la libertà.
E perché chiede di sdraiarsi? Non possono mangiare come meglio credono, seduti o in piedi?
Nei pranzi solenni, si mangiava, secondo l’uso romano, sdraiati su dei lettucci. Ma poteva mangiare in questa maniera soltanto chi aveva dei servi che potevano servirlo. Ecco allora la preziosa indicazione che ci dà l’evangelista: l’eucaristia serve per far sentire le persone “signori”. Per cui i discepoli, che sono persone libere, si mettono a servizio degli altri, quelli che sono considerati servi dalla società, gli ultimi, gli emarginati, gli esclusi, per far riscoprire loro la piena dignità, quella di signori.
E l’evangelista qui ci presenta gli stessi gesti che Gesù compirà nell’ultima cena. “Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo” – significa comunicazione divina – “recitò la benedizione”, “benedire” significa che quello che si ha non è più possesso proprio, ma è dono ricevuto, e come tale condiviso per moltiplicare gli effetti della creazione.
“Spezzò i pani e li diede ai discepoli” – gli stessi gesti che Gesù compirà nell’ultima cena quando prenderà i pani, benedirà, li spezzerà, li darà ai discepoli – “e i discepoli alla folla”: perché i discepoli non sono i proprietari di questo pane, ma sono i servitori. Il loro compito è prendere questo pane, che raffigura l’eucaristia, e distribuirlo alla folla, senza mettere condizioni e senza mettere limiti.
Risalta l’assenza di un comando preventivo di Gesù. Gesù non comanda alla folla di purificarsi? Prima di mangiare, anche se era ben conosciuto il rito, era obbligatorio, e non era un semplice rituale igienico, non bastava essersi lavati le mani; bisognava purificarsi le mani seguendo determinati riti e determinate preghiere. Ebbene Gesù, ogniqualvolta si trova a pranzo o a cena – e i pranzi e le cene nei vangeli anticipano sempre l’eucaristia –, mai chiede o impone di lavarsi le mani. Qual è il significato? Non è vero perché Gesù non lo chiede che gli uomini devono purificarsi per partecipare al banchetto del Signore, ma al contrario è il partecipare al banchetto del Signore che li purifica. Questa è la grande novità portata da Gesù. L’uomo non deve essere degno per partecipare al banchetto, ma è la partecipazione al banchetto che lo rende signore. Per questo Gesù si fa pane e chiede ai discepoli di essere donato, cioè distribuito, alla folla senza mettere condizioni.
Mangiano a sazietà, e avanzano dodici ceste. Il numero dodici è il numero delle tribù di Israele, e l’evangelista indica che attraverso la condivisione – e non l’accaparramento – si risolve la fame per tutto il popolo.
Ed ecco infine un dettaglio prezioso: “Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini”. L’evangelista riporta qui la stessa cifra di persone che erano i componenti, secondo gli Atti degli Apostoli 4, 4, della primitiva comunità cristiana.
Ma perché cinquemila?
I multipli di cinquanta nella Bibbia indicano l’azione dello Spirito. I profeti, guidati dallo Spirito, andavano a gruppi di cinquanta. Pentecostè non significa altro che cinquantesimo, il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, ed è il giorno nel quale nella comunità cristiana scende lo spirito. Non più una legge esterna da osservare, ma lo Spirito, una forza interiore da accogliere. Quindi i multipli di cinquanta indicano l’azione dello spirito.
Allora l’evangelista, attraverso la cifra cinquemila vuol far comprendere che, con il pane, è stato comunicato lo Spirito che era alla base del dono.
E infine il dettaglio: “senza contare le donne e i bambini”. Perché? Perché nel culto sinagogale la celebrazione poteva iniziare soltanto quando erano presenti dieci maschi adulti; la sinagoga poteva essere piena di donne e bambini, ma finché non c’erano dieci maschi adulti non si poteva iniziare il culto.

Commento al Vangelo di p. José María CASTILLO
In questo stesso capitolo del vangelo di Matteo, immediatamente prima di questo racconto della condivisione dei pani, si racconta l’assassinio di Giovanni Battista, perpetrato dalla crudeltà codarda di Erode. Ma si è già ricordato come, e fino a quali estremi, coloro che ci governano nel mondo attuale si comportano in maniera tale che la loro crudeltà e la loro codardia provocano indicibilmente più disastri di sofferenza e di morte rispetto a tutto quello che ha potuto causare il reuccio della Galilea del sec. I.
Il problema più grave proprio adesso è la fame. E bisogna ripeterlo mille e mille volte: ogni giorno muoiono di fame più di 50.000 esseri umani indifesi. Una disgrazia così grande non ha soluzione?

Si sa che il problema non sta nella mancanza di alimenti. Il problema sta nella distribuzione di questi alimenti. Ma capita che i poteri pubblici non sono disposti a risolvere questo problema. Perché, dietro la produzione e la distribuzione degli alimenti (come delle medicine, della tecnologia, dei mezzi di comunicazione…) è in gioco la distribuzione del capitale mondiale. E qui sbattiamo contro un muro che resiste a tutti gli sforzi che possono fare i bisognosi e gli indigenti del mondo intero. Diciamolo con franchezza e chiarezza: il problema della mortalità mondiale per fame non sarà risolto dalle decisioni che si prendono “a partire dall’alto”, a partire dalla banca mondiale, a partire dai governi delle grandi potenze, a partire dalla direzione delle grandi imprese….I ricchi non mollano il controllo del denaro. Ed il poco denaro che danno (mediante aiuti allo sviluppo e cose simili), lo danno per mascherare la loro faccia tosta e l’occultamento della verità di quello che accade realmente. Allora per questo non c’è soluzione?

Il racconto della condivisione dei pani indica la strada della soluzione. SI DISTRIBUISCE QUELLO CHE SI HA. Non abbiamo denaro. Non abbiamo alimenti, medicine, abitazioni….Allora?
Abbiamo lavoratori e lavoro. La versione attuale dei pani e dei pesci, che se li sono divisi e ce n’è stato per tutti fino a saziarsi, sarebbe oggi ridistribuire il lavoro. E che ogni lavoratore rinunci ad una o due ore di lavoro ogni giorno. Perché questo lo facciano quelli che non hanno lavoro. Non sarebbe immaginabile una decisione di tal genere? Non si dovrebbe spingere in questo senso già a partire da questo momento? Sarebbe la versione attuale della condivisione dei pani e dei pesci.

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Dio non ama. È amore
ANNO A, 12 luglio 2020, XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO;
Is 55,10-11; Sal 64; Rm 8,18-23; Mc 13,1-23
Spunti tratti dalla riflessione di Paolo Scquizzato 05/06/2020
L’amore dà, non importa a chi, come, quando. Perché è fatto così, non può non donarsi. Infatti, Dio non ama, è amore. Si riversa su tutti e su tutto, impregnando di sé ogni cosa e chiunque, indifferente al tipo di terreno che lo riceve: «Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5, 45); non fa preferenza di persona (cfr. At 10, 34), guarda solamente al cuore (cfr 1Sam 16, 7). Soprattutto non fa preferenze.

Ciascuno è un terreno dove l’Amore semplicemente accade. In questa mia storia fatta di terra dura, di sassi, di rovi, di superficialità, ma anche di terra buona, Egli vi si riversa. Non ama a pezzi; abbraccia tutto di me: la luce e la tenebra, il bene e il male, l’ombra e lo splendore.

Tutto è uno con l’Uno. Siamo nell’Amore come un tessuto imbevuto nella vernice. «Dio e io siamo uno; egli opera e io divengo. Il fuoco trasforma in sé ciò che vi è gettato» (Meister Eckhart). Dio abbraccia il tutto di me, recupera sempre, scommette ancora sull’amato che ha fallito, che è caduto e non finisce di rompere ciò che è già scheggiato:

«Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fatto trionfare la giustizia» (Mt 12, 20).

E la giustizia di Dio si chiama fedeltà.

Al di là dei sentieri che lo attraversano, delle pietre che nasconde e dei rovi che lo dominano, l’uomo agli occhi di Dio è sempre terra buona e bella, madre feconda in grado di ricominciare daccapo, capace di rimettersi in piedi, di sbagliare ancora. Diceva il grande drammaturgo irlandese Samuel Beckett: «Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio».

A me è chiesto di stare e di accogliere. Faccio opera di silenzio, di preghiera che si fa contemplazione, sapendo che «significa attendere Dio» (Mahatma Gandhi). Ma dinanzi a un cuore chiuso e indurito, neanche Dio può far qualcosa. L’Amore non fa violenza, sarebbe la dittatura del bene.

In questa parabola non viene chiesto di essere terreno buono perché la parola, che è Amore, possa compiere quanto promesso, ma chiede solo spazio per credere che, indipendentemente dalla qualità della terra, la Parola porterà frutto, perché l’energia, la fecondità non dipende dal terreno, ma dal seme. Per commuoverci dinanzi allo splendore di un fior di loto che affonda le sue radici nella melma fangosa.

Lo intuì già Isaia:

«Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:

non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55, 10s.).

Paolo Scquizzato è prete della diocesi di Pinerolo.


LE PARABOLE PRESENTI NEI VANGELI CANONICI

Con le Parabole la Parola di Dio entra nei luoghi della quotidianità: Gesù parlava alla vita! E raccontava. Raccontava parabole. Questo suo modo di parlare creava qualche problema: “Gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: Perché parli loro in parabole?“.

L’evangelista usa il verbo “parlare“, “raccontare“. Perché? Forse perché l’insegnamento può diventare più comprensibile prendendo spunto da esempi vissuti.

E perché la parabola? La parabola è il modo privilegiato di raccontare di Gesù. E si potrebbe pensare: certo, perché la parabola è come un esempio, che chiarisce? Con una precisazione: quando si parla in parabole non si definisce: non si dice “è”, è così e basta. Ma più semplicemente si dice: è “come…”: è come un seminatore, il regno di Dio è come il grano di senapa, è come una perla preziosa…, è come una rete gettata in mare… Quasi dicesse: è così, ma è anche altro…, altro che ancora rimane velato.

Pensate la diversità tra una chiesa categorica, che dice “è”, “è così”, e una chiesa delle parabole, che dice: “è come…”.

C’è un abisso tra il definire gelido e il raccontare appassionato. La differenza tra il dire: “Dio è l’essere perfettissimo” e il dire: “Dio è come un padre che aveva due figli…“.

Riportiamo l’elenco delle parabole che troviamo nel Vangelo:


XII TEMPO ORDINARIO – 21 giugno 2020

NON ABBIATE PAURA DI QUELLI CHE UCCIDONO IL CORPO

Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI

Mt 10, 26-33

[Gesù disse ai suoi discepoli:]

«Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.

E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo.

Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro.

Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati.

Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!

Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

*

La situazione dei discepoli è quella di uomini inermi dinanzi a nemici spietati. Si descrivono gli effetti della prevedibile persecuzione. I discepoli si trovano di fronte all’atteggiamento tipico del potere: coprire e nascondere! Il potere perseguita quanti rivelano il vero volto di Dio. Le autorità presentano un simulacro di Dio che serve per coprire l’egoismo dei loro interessi. Forti della loro autorità, impongono il loro potere con la paura.

Gesù invita a non temerli : Non abbiate paura! L’annuncio del suo messaggio rivelerà il vero volto di Dio nella figura del Padre e smaschera gli intrighi e le trame dei Capi. L’invito di non avere alcun tipo di paura e in nessuna circostanza, Gesù lo ripete per tre volte.

Il primo di questi inviti riguarda l’annuncio integrale del messaggio senza attenuazioni.

Il secondo invito riguarda la persecuzione che si scatena a causa della loro fedeltà al messaggio. L’effetto della persecuzione sulla comunità indica l’effetto di incoraggiare l’io vivo, cosciente e libero, la vita autentica – indicata dal termine greco ψυχή – che continua anche dopo la morte, la forza vitale che si rafforza.

A differenza della vita meramente fisica (σῶμα, corpo) che è transitoria e che con la morte conclude il suo ciclo biologico. L’opposizione ai valori della società ingiusta può provocare la persecuzione e la perdita della vita fisica (σῶμα), l’adesione ai valori del sistema, rappresentato da mammona (μαμωνᾷ, Mt 6,24), che conduce alla distruzione della propria esistenza (ψυχή = vita) e che, come un qualsiasi rifiuto, viene gettato nell’immondezzaio (Geenna).

Gesù assicura i discepoli perseguitati che, nonostante le apparenze, i persecutori non vinceranno definitivamente, perché tra costoro e i perseguitati il Padre si pone dalla parte dei perseguitati: se “mammona” è il dio che distrugge, il Padre è il Dio che vivifica.

Per far comprendere l’attenzione del Padre verso i suoi figli, Gesù prende come esempio i passeri, uccelli ritenuti inutili e dannosi per il raccolto dei cereali e animali per i quali non si benedice Dio perché considerati al di fuori della premura di Dio sul Creato. Il valore di questi passeri è infimo: con questa immagine Gesù intende rassicurare i discepoli di fronte alla persecuzione. Al Padre non sfugge nulla di quel che accade, neanche degli elementi ritenuti i più insignificanti della Creazione: quanto più sarà premuroso nei confronti dei propri figli!!

Questa interpretazione è confermata dalla versione di un passo parallelo di Luca (12,6): “Cinque passeri non si vendono forse per due assi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio!”.

La traduzione “senza il volere del Padre vostro” oppure “senza che il Padre vostro lo voglia” ha causato la nefasta credenza di un Dio la cui volontà coincide con ogni aspetto dell’esistenza. Il senso di fatalismo è espresso nel nefasto detto popolare: “non cade foglia che Dio non voglia”. Questa interpretazione snatura il senso dell’insegnamento di Gesù teso a infondere la massima fiducia in un Padre al quale non sfugge nulla di quanto accade anche agli elementi più insignificanti della creazione. Egli presterà quindi un’attenzione maggiore all’uomo che vale “più di molti passeri”.

Il terzo invito a non aver paura riassume i due precedenti e viene motivato dalla conseguente fiducia totale in colui che non è indifferente alle situazioni che vivono gli uomini, ma che li conosce come neanche essi si conoscono e mai riusciranno a conoscersi ( il numero dei capelli!): “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,20): non abbiate dunque paura!

All’invito di Gesù fa eco Paolo nella lettera ai Romani: “Se Dio è per noi, chi può essere contro di noi?”; “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rm 8,31.35).

Gesù ha invitato i suoi discepoli a essere “luce del mondo” (Mt 5,14). L’adesione a Gesù e al suo messaggio ha come effetto un comportamento nuovo nei confronti degli uomini che non può essere nascosto, ma che diventa visibile. L’unico distintivo del credente è un amore come quello di Gesù, capace di farsi dono e servizio (Gv 13,35). Questo comportamento rende riconoscibile il credente come discepolo di Gesù.

Il contrario del riconoscimento è il rinnegamento che nel vangelo vedrà come massimo protagonista Pietro che negherà per tre volte di essere discepolo di Gesù (Mt 26, 34-35.75): l’evangelista avverte che chi non rinnega se stesso, prima o poi finisce col rinnegare Gesù.


LA MIA CARNE E’ VERO CIBO E IL MIO SANGUE VERA BEVANDA

Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI

Gv 6, 51-58

[In quel tempo Gesù disse alla folla:]

«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».

Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico:

  • se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita.
  • Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
  • Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
  • Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui.
  • Come il Padre, IL VIVENTE (che ha la vita), ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
  • Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

*

Le parole di Gesù nel vangelo di Giovanni, sono talmente gravi che, al termine di queste, gran parte dei suoi discepoli lo abbandonerà e non tornerà più con lui. Vediamo allora che cos’è di grave, di importante, che Gesù ha detto.

Nel capitolo 6 del vangelo di Giovanni troviamo un lungo ed intenso insegnamento sull’Eucaristia. Giovanni è l’unico evangelista che non riporta la narrazione della cena, ma è quello che, più degli altri, riflette sul profondo significato della stessa. Il capitolo 6 è un insegnamento, una catechesi alla comunità cristiana, sull’Eucaristia. Leggiamo il capitolo 6, dal versetto 51.

“«Io sono»”Gesù rivendica la condizione divina – “«il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno». Gesù garantisce che l’adesione a lui è ciò che permette all’uomo di avere una vita di una qualità tale che è indistruttibile. Questa è la vita eterna. Gesù, il figlio di Dio, si fa pane perché quanti lo accolgono e sono capaci di farsi pane per gli altri, diventino anch’essi figli di Dio.

«E il pane che io darò è la mia carne…»” Gesù adopera proprio il termine “carne”, che indica l’uomo nella sua debolezza – “«…per la vita del mondo»”.

Quello che Gesù sta dicendo è molto importante: la vita di Dio non si dà al di fuori della realtà umana: non ci può essere comunicazione dello Spirito dove non ci sia anche il dono della carne. Il dono di Dio passa attraverso la carne, dice Gesù. La parola “carne” richiama l’aspetto terreno, debole, della sua vita.

Qui l’evangelista presenta una contrapposizione tra gli uomini della religione che si innalzano per incontrare Dio – un Dio che la religione ha reso lontano, inavvicinabile, inaccessibile – e un Dio che scende per incontrare l’uomo.

“Allora i Giudei si misero a discutere aspramente tra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» – i giudei nel vangelo di Giovanni indicano le autorità –  Un Dio che, anziché pretendere i doni dagli uomini, si dona all’uomo fino ad arrivare a fondersi con lui, si fa alimento per lui. Questo è inaccettabile per le autorità religiose che basano tutto il loro potere sulla separazione tra Dio e gli uomini. Un Dio che vuole essere accolto dagli uomini e fondersi con loro, questo per loro non solo è intollerabile, ma è pericoloso. Ebbene Gesù risponde loro:

“«In verità, in verità io vi dico…»”quindi la doppia affermazione “in verità, in verità io vi dico” è quella che precede le dichiarazioni solenni, importanti di Gesù – “«se non mangiate la carne del figlio dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita»”.Gesù allude all’immagine dell’agnello pasquale.

Nella notte dell’Esodo Mosè aveva comandato agli ebrei di mangiare la carne dell’agnello perché questo cibo avrebbe dato loro la forza di iniziare questo viaggio verso la liberazione; e con il sangue potevano aspergere gli stipiti delle porte e ciò li avrebbe separati dall’azione dell’angelo della morte. Ebbene, Gesù si presenta come carne, alimento che dà la forza di intraprendere il viaggio verso la piena libertà, e il sangue non libera dalla morte terrena, ma libera dalla morte definitiva.

Poi Gesù, se alle volte non fosse stato chiara la sua affermazione, afferma: Chi mastica (mangia) la mia carne…”. Il verbo “masticare” in greco è molto rude, primitivo, in greco è fagé; già il suono dà l’idea di qualcosa di primitivo, e significa “masticare, spezzettare”. Quindi Gesù vuole evitare che l’adesione a lui sia un’adesione ideale, ma dev’essere concreta. Infatti dice: «Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna»”.

La vita eterna per Gesù non è un premio futuro per la buona condotta tenuta nel presente, ma una possibilità di una qualità di vita nel presente.

Gesù non dice “avrà la vita eterna”. La vita eterna c’è già. Chi, come lui, fa della propria vita un dono d’amore per gli altri, ha una vita di una qualità tale che è indistruttibile.

“«E io lo risusciterò nell’ultimo giorno»”. L’ultimo giorno non è la fine dei tempi. L’ultimo giorno, nel vangelo di Giovanni, è il giorno della morte in cui Gesù, morendo, comunica il suo Spirito, cioè elemento di vita che concede, a chi lo accoglie, una vita indistruttibile.

E Gesù conferma che la sua “«carne è vero cibo e il suo sangue è la vera bevanda»”. Con Gesù non ci sono regole esterne che l’uomo deve osservare, ma l’assimilazione di una vita nuova. E la sua carne è vero cibo, quello che alimenta la vita dell’uomo, e il suo sangue vera bevanda, cioè elementi che entrano nell’uomo e si fondono con lui. Non più un codice esterno da osservare, ma una vita da assimilare. Gesù ci presenta un Dio che non assorbe gli uomini, ma li potenzia. Un Dio che non prende l’energia degli uomini, ma comunica loro la sua.

E Gesù continua ad insistere: “«Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui»”. Ecco la piena fusione di Gesù con gli uomini e degli uomini con Gesù. Quello di Gesù è un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con gli uomini e dilatarne la capacità d’amore.

“«Come il Padre, che ha la vita,… »”ed è l’unica volta che Dio viene definito come il Padre che è vivente “«…ha mandato me…»”il Padre ha mandato il figlio per manifestare il suo amore senza limiti – “«e io vivo per il Padre, così anche colui CHE MASTICA me, vivrà per me»”.  – di nuovo Gesù insiste con questo verbo che indica non un’adesione teorica, ma reale e concreta –

Alla vita ricevuta da Dio corrisponde una vita comunicata ai fratelli, questo è il significato dell’Eucaristia. E, come il Padre ha mandato il figlio ad essere manifestazione visibile di un amore senza limiti, così quanti accolgono Gesù sono chiamati a manifestare un amore incondizionato.

E conclude Gesù: “«Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono»”. Gesù mette il dito nella piaga del fallimento dell’Esodo. Tutti quelli che sono usciti dall’Egitto sono morti. I loro figli sono entrati. E Gesù contrappone il suo esodo che è destinato invece a realizzarsi pienamente. E di nuovo Gesù insiste: “«Chi mastica…»” quindi adesione piena e totale, non simbolica “«questo pane vivrà per sempre»”. Chi orienta la propria vita, con Gesù e come Gesù, a favore degli altri, ha già una vita che la morte non potrà interrompere.

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ASCENSIONE del SIGNORE

Domenica 24 maggio 2020 Mt 28, 16-20

[In quel tempo] 

gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.

Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

  1. …Un occhio illuminato, secondo la luce dello Spirito, sa che significa l’Ascensione, sa che c’è una forza ascensionale che prende dal basso coloro che non sono, che sono schiacciati e li porta in alto. La creatura più umile e vilipesa ha una regalità interna. Noi non la vediamo, ma se abbiamo l’occhio illuminato la vediamo, sentiamo che c’è questa potenza che è una benedizione ed una consolazione, che, come disse una di queste creature che si chiama Maria, «abbatte i potenti dai troni ed esalta gli umili». È una forza newtoniana che porta le cose verso il loro centro. 

Gesù è il centro di questa gravitazione diversa. Crederci è importante perché noi possiamo collocare in questo campo magnetico diverso tutti coloro che muoiono sconosciuti, tutti coloro che vivono stentando la vita. Tutti coloro che sono sprovvisti di senso sono dentro questa ascensione, perché il punto di riferimento reale è Colui che è diventato Signore proprio perché fu schiacciato ed annientato. 

  1. La seconda riflessione è che con quest’occhio illuminato noi non stiamo a guardare il cielo. Dite la verità: la nostra tentazione è quella. Le persone religiose guardano il cielo, guardano il Paradiso, guardano in su. 

Chi ha questa fede invece guarda in giù. Guardare il mondo non è una cosa così ovvia. Perché state a guardare in alto? A guardare le madonne che appaiono? A guardare i miracoli? Perché? Dobbiamo guardare in basso, dobbiamo guardare l’uomo e le tribolazioni e le sofferenze e le speranze umane. 

Questa fede, invece di assecondare la nostra spinta ad andare in alto, ci immerge nella profondità dove sale la regalità che Dio ha scelto, quella che ha assegnato a coloro che nel mondo vivono per la giustizia, per la pace e che sono, proprio per questo, perseguitati e oppressi. 

Ecco un altro importante discorso che taglia di netto la falsa unificazione fra fede e religione. Certo, la religione, come ansia dell’invisibile è una struttura portante del nostro essere, ma guai a sciogliere la fede in questa struttura naturale ed antropologica. La fede è uno sguardo in basso, mentre la religione ci porta a guardare in alto. 

Evidentemente Il linguaggio religioso ha tutti i diritti di esserci, purché non si distrugga questo elemento specifico che è tutto il senso del cristianesimo perché noi crediamo in Colui che pur essendo Dio si spogliò di tutti gli attributi di Dio, prendendo forma di servo e facendosi obbediente fino alla morte di croce. 

  1. La terza verità è quella della rinuncia a sapere quello che vorremmo sapere. Ma quando avverrà tutto questo? Quando avverrà quel ritorno del Signore, cioè la manifestazione dell’invisibile in cui crediamo? Quando vedremo, veramente, gli afflitti consolati? Quando vedremo veramente, la terra in mano ai poveri, ai miti, ai misericordiosi? 

Questo è il segreto di Dio ed il Signore lo dice: non dovete domandarvi i tempi. Non spetta a voi conoscere i tempi ed i momenti. Questa rinuncia. è importante. Voi sapete invece con quanta passione, in tutti i secoli del cristianesimo, molti gruppi, sette, hanno cercato di stabilire il momento preciso della fine del mondo. Anche questa è un’obbedienza alla carne, è, in qualche modo, una forma di affermazione di sé. Invece c’è un segreto che attraversa le cose. Noi non conosciamo la fine. Noi dobbiamo vivere nel nostro oggi l’adempimento, come se ogni giorno fosse l’ultimo. Dobbiamo fare in modo che questa manifestazione, questa realizzazione del capovolgimento che è stato realizzato dal Cristo – che siede alla destra del Padre pur essendo un crocifisso – debba avvenire per compito nostro. 

Passeranno altri tempi, gli occhi cambieranno ancora, la conoscenza del mondo si modifica ogni giorno e dobbiamo essere pronti a liberarci delle immagini che sono imputridite e polverose per dare allo spirito l’alacrità e l’agilità necessaria. Quello che in quel momento misterioso Gesù disse ai suoi nell’accomiatarsi per sempre rimane per noi: Egli sarà con noi, tutti i giorni, fino alla consumazione dei secoli. 

Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol. 1

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Emmaus: per strada, non nel tempio

Tratto da: Adista Notizie n° 12 del 28/03/2020

III DOMENICA DI PASQUA – Lc 24,13-35

Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. 

La storia di Emmaus inizia con un invito al sepolcro vuoto («Non è qui. È risuscitato; vi aspetta in Galilea. Là lo vedrete» Mt 28,7), si sviluppa per strada e termina con una conviviale. Come per dire che «un sepolcro, che è stato costatato vuoto, in quanto tale non testimonia mai solo il senso e l’esistenza di una risurrezione» (Karl Rahner).

Ecco. La fede nella Risurrezione non nasce da un sepolcro vuoto! Credere nella Risurrezione vuol dire avere questa coscienza di Dio che non abita più nei cieli (come si poteva credere prima dell’Incarnazione), ma che nella toponomastica umana non abita più nemmeno nel tempio o nei luoghi deputati al culto. La residenza di Dio non è più stanziale, ma nomade, si dipana lungo le strade del mondo.

Ci teniamo a rilevare che, stando ai Vangeli, Gesù nella sua vita pubblica non è mai andato al tempio per pregare o per partecipare agli atti liturgici. È vero, sì, che Gesù, soprattutto secondo il vangelo di Giovanni, frequentava il tempio, ma sempre per parlare al popolo e spiegare il suo messaggio, visto che là, di solito, si riuniva la gente. «Gesù non incontrava il Padre nello spazio sacro del Tempio e neanche nel tempo sacro del culto religioso. Gesù ha parlato del Padre e con il Padre nello spazio profano della campagna e della montagna e nel tempo profano della convivenza con la gente» (José María Castillo: L’umanizzazione di Dio; p. 122).

Anche a significare che in questa nuova era la vera presenza non è più quella della “cosa” che sta davanti al soggetto, per cui anche “dio” finirebbe per diventare un feticcio, ma quella del “Tu” che sta davanti all’“Io”. E ciò non può avvenire se non là dove si svolge la vita degli esseri umani: il villaggio, la strada ed ogni luogo di convivialità, «perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).

Questa dichiarazione di presenza di Gesù trova corrispondenza nell’esperienza gioiosa dei viandanti di Emmaus: «Noi sentivamo come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via ci parlava?!» (Lc 24,32). 

Il vangelo di Matteo si chiude con le bellissime parole del Risorto: «Sappiate che io sarò con voi, tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Promessa di una relazione che per ognuno di noi ha i suoi tempi di adempimento, tra dubbi e speranze, e sperimentazioni gioiose e lutti, ricerche e scoperte: Tabor e Golgota…

Alla domanda sul perché Gesù dopo la Risurrezione si sia mostrato solo ai suoi discepoli e non a coloro che l’avevano ucciso, S. Agostino risponde: «Era infatti più importante insegnare agli amici l’umiltà che sfidare i nemici con la verità»! Verità e Carità non sono in contrapposizione. La Verità ha il volto della Carità. Come Dio. 

Aldo Antonelli

 prete diocesano in Avezzano 

e referente di Libera Marsica

II DOMENICA DI PASQUA – 19 APRILE 2020

OTTO GIORNI DOPO VENNE GESÙ

COMMENTO AL VANGELO DI P. ALBERTO MAGGI OSM

Gv 20:19-31 

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

 Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». 

Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». 

Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. Il primo giorno della settimana – è il giorno della risurrezione di Gesù – 

i discepoli hanno preso l’abitudine, l’iniziativa di riunirsi per la celebrazione dell’Eucaristia. L’eucaristia è il momento importante, indispensabile e prezioso per la crescita personale e per la crescita della comunità cristiana.  

L’evangelista in questo brano ci presenta il suo significato profondo. 

La comunità è riunita; è il primo giorno della settimana e – scrive Giovanni – che “venne Gesù”. Ogni volta che la comunità si riunisce ecco che Gesù si manifesta. 

In questo brano l’evangelista evita di adoperare il verbo “apparire”; perché non sono apparizioni, sono incontri, sono manifestazioni abituali di Gesù quando la sua comunità si riunisce. 

E stette in mezzo”: è importante l’indicazione sulla posizione di Gesù: quando Gesù si manifesta si mette al centro. 

Qual è il significato di questo? Gesù non si mette davanti agli altri, non si mette in alto – il che presupporrebbe che alcuni tra le persone potrebbero essere più vicini a lui – no! Gesù si mette al centro perché nell’Eucaristia non ci sono gerarchie che indichino delle differenze di importanza, ma tutti sono uguali attorno a Gesù

Ma Gesù dal centro comunica il suo amore ai suoi e dà forza al suo amore per mandarli con lui verso gli altri. 

Gesù pronuncia le parole che vengono ripetute per ben tre volte in questo brano: “Pace a voi!”. Questo di Gesù non è un invito, non è un augurio: Gesù non dice “La pace sia con voi”, ma è un dono. 

Nell’Eucaristia, la presenza di Gesù è un dono. La parola “Pace nel mondo ebraico ha un grande significato e indica tutto quello che concorre al benessere degli uomini. Ebbene, a Gesù sta a cuore il benessere dei suoi discepoli e lui glielo dona. 

Quelle di Gesù non sono solo belle parole. Infatti “detto questo”, quindi dopo aver donato loro la pace, “mostrò loro le mani e il fianco che portano i segni della passione”. Mostrando le mani e il fianco con i segni della passione, vuol ricordare che quell’amore che lo ha spinto a dare la sua stessa vita, per i suoi discepoli, rimane per sempre!

Lui non si è fatto difendere dai suoi discepoli che dicevano di essere pronti a dare la vita per il loro maestro, no! è stato lui che ha dato la vita per i suoi discepoli. 

Per la comunità offre il dono della pace per sempre, perché Gesù dona un amore che protegge, un amore che avvolge, un amore che segue e accompagna i suoi discepoli. 

E infatti “I discepoli gioirono nel vedere il Signore”: è l’esperienza costante del credente della comunità cristiana: si è nelle mani di amore del Signore. 

Poi Gesù aggiunge: “Come il Padre ha mandato me anch’io mando voi”; il Padre ha mandato il Figlio per manifestare il suo amore, la sua tenerezza incondizionata: un amore che non dipende dai meriti delle persone, ma dalle loro necessità. 

Il compito dei credenti è di prolungare nel mondo l’amore stesso del Padre e del Figlio. Così la comunità cristiana deve essere espressione del suo amore. 

La carezza è un gesto di tenerezza che tutti quanti possono comprendere. E questa volta, per essere capaci di manifestare questo amore della tenerezza – “soffiò”: questa espressione la troviamo nel libro della Genesi (2, 7), al momento della creazione dell’uomo; “e disse loro: ricevete Spirito Santo”: la comunicazione di vita è senza misura, la misura la mette la persona. 

Quelle parti che sono ancora occupate da risentimenti, rancori ed egoismi sono tutte parti dove lo Spirito non è ancora presente, ma dove questo Spirito viene accolto in pienezza si innesca un dinamismo di amore ricevuto e diventa amore che viene comunicato. Tanto più grande è la capacità del discepolo di comunicare amore, tanto più grande sarà la capacità di ricevere questo Spirito da parte di Dio. 

Dopo di questo c’è l’indicazione di Gesù sul perdono dei peccati: non è una carica importante che Gesù dà ad alcuni, non è un potere che Gesù dà solo ad alcuni, ma è la responsabilità per tutti. 

Ricordiamo che il termine peccato indica direzione sbagliata di vita e quindi riguarda il passato.

La comunità di Gesù, con lui al centro, dove si irradia questo amore, emana luce. Quelli che vivono nel peccato si sentono attratti dalla luce di questo amore e (ne) entrano a far parte, il loro passato viene completamente cancellato. Chi invece – Gesù lo aveva detto – chi fa il male odia la luce, rimane nelle tenebre. Pur vedendo la luce di questo amore se ne ritrae, incombe la presenza della loro colpa e del loro peccato. 

Quindi Gesù non dà un potere ad alcuni, ma dà la responsabilità alla comunità di essere la luce dell’amore del Padre.

IV QUARESIMA – 22 marzo 2020

ANDO’, SI LAVO’ E TORNO’ CHE CI VEDEVA

Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI

Gv 9,1-41

[In quel tempo] 

Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. 

Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». 

Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva

Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so». 

Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». 

Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E litigavano tra loro. 

Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». 

Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. 

Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. 

Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».

*

Le autorità religiose, che pretendono di essere la luce del popolo, le guide dei ciechi – come amavano farsi chiamare – in realtà sono esse stesse accecate dalla propria dottrina che impedisce loro di vedere le azioni del Dio creatore. E’ quanto formula il capitolo 9 del vangelo di Giovanni. 

In questo episodio Gesù restituisce la vista a un cieco nato, mandandolo alla piscina di Siloe. E l’evangelista specifica cosa significa “l’inviato”, che è Gesù stesso. 

Quindi Gesù, che si è definito “luce del mondo”, invita quest’individuo, che mai ha saputo cosa fosse la luce, ad andargli incontro. 

“Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”. E qui cominciano i guai. Da miracolato, l’individuo si trova subito ad essere imputato. Anzitutto c’è la meraviglia dei vicini, di quelli che lo avevano visto prima, che era mendicante, che non lo riconoscono. E’ strano. Come fanno a non riconoscerlo? In fondo gli è solo tornata la luce agli occhi, non è che ha cambiato fisionomia. E’ che quando si incontra Gesù, e il suo messaggio restituisce dignità e libertà alle persone, si è quelli di prima, ma si è anche una persona completamente nuova. E’ questo il motivo per cui non riconoscono il cieco nato. 

E, di fronte alla disputa su “è lui o non è lui”, l’ex-cieco dice “«Io sono»”. E’ lo stesso modo con il quale Gesù rivendica la condizione divina. Quando si incontra Gesù, la condizione divina di Gesù è comunicata anche a quanti lo accolgono. Come aveva detto Giovanni nel suo prologo (1,12): “A quanti lo hanno accolto ha dato la capacità di diventare figli di Dio”. 

Incomincia qui il problema per questo ex cieco. Per la prima volta, e per ben sette volte – è questo il tema conduttore del brano – gli chiederanno come gli siano stati aperti gli occhi. Per comprendere questa domanda che cadenzerà tutto l’episodio per ben sette volte, bisogna ricordare che “aprire gli occhi” era immagine di una liberazione dall’oppressione, e sarebbe stato il compito del Messia. 

Incapaci di avere un’opinione propria, che non fosse quella emanata dalle autorità e dai capi religiosi, conducono questo ex cieco dai farisei, i leader spirituali del popolo. Perché? Perché era sabato. 

Per la seconda volta Gesù guarisce qualcuno in un giorno in cui era proibito non solo curare gli ammalati, ma anche visitarli. Sappiamo che il sabato era il comandamento più importante, quello che Dio stesso osservava. Quindi sono incapaci di giudicare questo avvenimento perché – e c’è indubbiamente un aspetto positivo – c’è la trasgressione del comandamento più importante: il riposo del sabato.

 Allora anche i farisei chiedono come quest’uomo abbia ricuperato la vista. Non c’è nessuna allegria, nessun condivisione gioiosa rispetto al fatto che quest’uomo, cieco dalla nascita, avesse ricuperato la vista. Ma vogliono sapere soltanto il come: abituati sempre a giudicare tutti e tutto con la Legge in mano, l’unico loro criterio di giudizio, “alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato!»”: l’unico criterio di giudizio per i farisei è l’osservanza della Legge, non il bene dell’uomo. Per Gesù, invece, il criterio di giudizio è sempre il bene dell’uomo. Chi giudica in base alla Legge, in base alla dottrina, in base a un codice, sostiene che Gesù non viene da Dio. 

Altri invece chiedevano: come può un peccatore operare segni di questo genere? ….

“Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu che cosa dici di lui dal momento che ti ha aperto gli occhi?»”: incapaci di dare una risposta, vogliono che la dia l’ex cieco.

Li preoccupa il fatto che l’uomo abbia aperto gli occhi perché l’istituzione religiosa può dominare le persone fintanto che il popolo è cieco, ma quando apre gli occhi e vede il volto di Dio e la dignità alla quale lo chiama, i primi a farne le spese sono quelli che presumono di essere rappresentanti di questo Dio e in realtà sono soltanto la tenebra che ostacola questa luce del mondo. 

Ebbene lui risponde: «E’ un profeta!» Che equivale a dire “Viene da Dio!”. Mentre i farisei erano sicuri dicendo “Quest’uomo non viene da Dio, colui che era stato cieco ci vede, e coloro che vedevano ora sono ciechi. 

Allora entrano in campo i Giudei. Con questo termine l’evangelista indica i capi religiosi del popolo; ebbene, per difendere la loro dottrina, questi negano l’evidenza:  “Non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse riacquistato la vista”. Per difendere la loro teologia, per difendere la loro dottrina, per difendere la Legge, negano l’evidenza, negano la vita. E intimidiscono i genitori dell’ex cieco e li interrogano. 

E’ un interrogatorio molto pesante, facendo intuire apertamente che sono degli imbroglioni e fanno due domande: “«E’ questo il vostro figlio…»”, quindi insinuano il dubbio che non fosse il loro figlio, “«…che voi dite essere nato cieco?»”: quindi sono due domande. “E’ vostro figlio?” e “E’ nato cieco?”.  

«Come mai ora ci vede? ». I genitori rispondono: «sappiamo che questo è nostro figlio – è loro figlio – e che è nato cieco, ma come ora ci veda non lo sappiamo e chi gli abbia aperto gli occhi noi non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo! Chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui da sé»: è maggiorenne, è maggiore di tredici anni. E l’evangelista annota che dissero questo per paura delle autorità religiose che avevano già deciso: chiunque avesse riconosciuto Gesù come il Messia, il Cristo, sarebbe stato espulso dalla sinagoga, che significava la morte civile. Con gli espulsi dalla sinagoga, considerati degli appestati, bisognava tenere una distanza di almeno due metri di sicurezza. 

Non contenti, “chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Dà gloria a Dio…»” espressione che significa “confessa, riconosci, sii sincero, anche magari a tue spese”, “«…noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore»”: quindi il giudizio delle autorità è sicuro e deve essere più valido dell’esperienza dell’individuo. Per le autorità il popolo non può avere una propria opinione che non sia quella da loro emanata. 

La risposta dell’ex cieco è ricca di humor. Dice: “Io non entro in questioni teologiche che non è mia la competenza” :… “«Se sia un peccatore non lo so»”quindi non entra in questioni dottrinali, lui  parla della propria esperienza vissuta – “«Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo»”: voi dite che quest’uomo è un peccatore, voi forse volete insinuare che per me sarebbe stato meglio rimanere cieco piuttosto che ricuperare la vista da un peccatore, ma la mia esperienza è questa: prima ero cieco e adesso ci vedo. L’evangelista sta dicendo che non la dottrina, ma l’esperienza dell’individuo è quella che ha la meglio. E’ affermato il primato della propria coscienza sulla dottrina. La dottrina può dire quello che vuole, che la tua esperienza è negativa, che sei in peccato…, ma se la tua vita ti dice che questo è positivo, se questo ti dà e comunica vita, questo è quello che conta. 

Quindi l’ex cieco ridicolizza l’atteggiamento di queste autorità. E dice “se sia un peccatore non lo so, «ma una cosa io so: che ero cieco e ora ci vedo»

Ed ecco allora di nuovo l’insistenza della domanda: “«Cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?»”: questo vogliono sapere, come ha fatto ad aprirgli gli occhi. E, con fine umorismo, il cieco dice: “«Ve l’ho già detto e non avete ascoltato. Volete forse anche voi diventare suoi discepoli?»”. 

Non l’avesse mai detto:… “Lo insultarono” : quando le autorità non sanno come rispondere, passano all’insulto! 

“E dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè!»” : essi non seguono un vivente, ma venerano un morto, e dicono: “«Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio, ma costui …»”, è interessante che nei vangeli le autorità religiose, i Giudei, i capi, quando si rivolgono a Gesù, o parlano di Gesù, evitano sempre di nominare il nome, e usano un termine dispregiativo: “Costui”. “«…costui non sappiamo di dove sia»”. Non conoscono Gesù perché non conoscono Dio, non conoscono il Padre che è amante della vita. I difensori del Dio legislatore non possono comprendere le azioni del creatore che non si manifestano nella dottrina, ma nella vita. 

“Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi!»”. Per la sesta volta notiamo l’insistenza di questo aprire gli occhi che è il filo conduttore di tutto questo brano, e l’ex cieco, che è un mendicante, con il buon senso ridicolizza le acrobazie teologiche dei capi. Tutti si rendono conto che c’è un intervento divino, meno che le autorità. 

E replica con il buon senso: “«Da che mondo è mondo non si è mai sentito che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla»”: è una intuizione elementare e talmente chiara … Come fanno le autorità a non comprendere questo? La dottrina li ha accecati. 

Per loro, quello che interessa è il bene della dottrina, quindi la difesa della loro istituzione, e non il bene dell’uomo. A loro il bene dell’uomo non interessa. 

Non desiderando apprendere, ma soltanto insegnare, gli replicano con violenza: “«Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?» All’inizio del brano c’era la domanda dei discepoli se avesse peccato questo ragazzo o i suoi genitori per il fatto di essere cieco. La cecità era considerata una maledizione perché impediva lo studio della Legge. Ebbene, i Giudei non hanno dubbi: è nato nei peccati; l’uomo deve tornare cieco per dare loro ragione. 

“E lo cacciarono fuori” : è l’espulsione dalla sinagoga. 

Non è un gran danno: cacciato dalla religione, trova la fede. Infatti, cacciato dalla sinagoga, Gesù lo cerca e lo trova. I capi religiosi che presumono di scomunicare, in realtà sono loro i veri scomunicati.

III QUARESIMA – 15 marzo 2020

SORGENTE DI ACQUA CHE ZAMPILLA

PER LA VITA ETERNA

Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI

Gv 4, 5-42

[In quel tempo]

Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno.

(A)

Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere».

I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi.

Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani.

Gesù le risponde:

«Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva».

Gli dice la donna:

«Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».

Gesù le risponde:

«Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».

«Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua».

(B)

Le dice:

«Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui».

Gli risponde la donna:

«Io non ho marito».

Le dice Gesù:

«Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».

(C)

Gli replica la donna:

«Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare».

Gesù le dice:

«Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre.

Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei.

Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano.

Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità».

Gli rispose la donna:

«So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa».

Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te.

(D)

In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?».

La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui.

Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia».

Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete».

E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?».

Gesù disse loro:

«Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura?

Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica».

Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni.

Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

*

Sono tre i personaggi femminili nel vangelo di Giovanni, ai quali Gesù si rivolge e rappresentano in qualche modo le spose di Dio. Il rapporto tra Dio e il suo popolo, attraverso i profeti, in particolare da Osea in poi, il profeta della Samaria, era raffigurato come quello di un matrimonio. Dio era lo sposo e il popolo la sua sposa.

In questo vangelo Gesù si rivolge con l’appellativo “donna”, che significa “sposa, moglie”:

  1. alla madre alle nozze di Cana, Gv 2, 1,11 (la madre rappresenta il popolo che è stato sempre fedele a Dio, testimone della nuova alleanza che Gesù verrà a proporre, perché in quella vecchia non c’è vino, cioè manca l’amore);
  2. alla donna adultera, la sposa adultera, che lo sposo va a riconquistare non attraverso delle minacce o dei castighi, ma con un’offerta ancora più grande di amore (la Samaritana, Gv 4, 1-42);
  3. a Maria di Magdala, la sposa del Signore che rappresenta la nuova comunità (Gv 20, 11-18).

In questo brano c’è l’intenzione di Dio – che è Gesù – di ricuperare la “sposa adultera”. Ecco perché nei versetti 3 e 4, che purtroppo la liturgia ha eliminato da questa lettura, si legge: Gesù lasciò la Giudea, si diresse di nuovo verso la Galilea; doveva perciò attraversare la Samaria”.

Questo “doveva attraversare la Samaria”, non si deve a un itinerario geografico. Normalmente dalla Giudea alla Galilea si percorreva la più comoda e tranquilla vallata del Giordano, perché, essendoci inimicizia tra galilei, giudei e samaritani, attraversare quella regione significa andare incontro a guai. E spesso ci si lasciava la pelle. Allora questo “dovere attraversare la Samaria” da parte di Gesù, non lo si deve a motivi di itinerario, ma a motivi teologici.

E’ lo sposo che va a ricuperare la sposa adultera. L’evangelista ci presenta una donna samaritana, anonima. Quando i personaggi sono anonimi significa che sono personaggi rappresentativi di una realtà che l’evangelista vuole presentare.

E Gesù, indifferente ai conflitti della razza, della religione e del sesso, si rivolge a questa donna chiedendole da bere. E’ una cosa che un uomo giudeo non avrebbe mai fatto: chiedere a una donna, e per di più ad una samaritana, una nemica, che è considerata impura. Infatti la donna samaritana si meraviglia e chiede a Gesù: “«Come mai tu che sei giudeo, chiedi da bere a me che sono donna samaritana?»” E lo sottolinea: un uomo non rivolge la parola a una donna, e poi questa è samaritana. I samaritani, per la loro idolatria erano considerati impuri, nemici di Dio e nemici di tutti gli uomini. E l’evangelista diplomaticamente sottolinea: “I giudei infatti non hanno rapporti con i samaritani; ovvero se le davano di santa ragione tutte le volte che si incontravano.

Gesù chiede un minimo segno di accoglienza, di ospitalità, per poi rispondere lui con il suo dono. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio!»”.Lo sposo va a riconquistare la sposa adultera (ricorda il pensiero del profeta Osea), non attraverso le minacce, ma con un’offerta ancora più grande del suo amore. E Gesù le dice: “Se tu conoscessi questo dono e colui che ti dà da bere, tu stessa gli avresti chiesto acqua viva”,cioè l’acqua limpida della sorgente.

Ed ecco che qui il dialogo si svolge tra due differenti termini che riguardano il luogo di quest’acqua: dispiace che i traduttori non ne tengano conto. La donna parla di pozzo, che significa un luogo dove c’è l’acqua, ma l’acqua non è viva (cioè di sorgente) e, soprattutto, esige lo sforzo dell’uomo, in questo caso esige lo sforzo della donna, per attingere l’acqua. Il pozzo è l’immagine della Legge e l’acqua è quella che dà la vita.

Mentre la donna parla di pozzo, cioè lei non conosce un dono gratuito, Gesù le parla di sorgente. Nella sorgente l’acqua è viva, l’acqua zampilla, e soprattutto non richiede nessuno sforzo da parte della donna che ha sete, se non quello di bere.

Infatti Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete»”,Immagine della legge. La Legge non riesce a rispondere al desiderio che ogni uomo porta dentro. Perché, per la Legge, l’uomo è sempre limitato, inadeguato, inadempiente.

Ma Gesù dichiara: “«Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno»”. Il suo messaggio, la sua persona, è la risposta di Dio al desiderio di pienezza che ogni persona si porta dentro.

E aggiunge Gesù: “«Anzi, l’acqua che io gli darò, diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna»”:quindi non è più un’acqua esterna, ma è un’acqua interiore. L’amore di Dio, che attraverso Gesù viene comunicato all’uomo, nella misura in cui l’uomo lo accoglie e lo trasmette agli altri, in questo dinamismo di un amore ricevuto e di un amore comunicato, realizza, fa crescere e matura la sua esistenza per sempre: rende la vita indistruttibile.

Quindi non è un’esperienza che si fa con l’osservanza di una Legge esterna all’uomo, ma l’esperienza di una forza interiore, perché Dio non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro la sua stessa capacità d’amore.

*

A questo punto, stranamente, Gesù chiede alla donna di andare a chiamare il marito. La risposta della donna è che non ha marito. E Gesù le fa notare che ha avuto cinque mariti. Cosa significa questo? Abbiamo visto che la donna è una persona anonima; e nel vangelo i personaggi anonimi sono personaggi rappresentativi; quindi la donna rappresenta la Samaria. Inoltre nella lingua ebraica “signore” e “marito” hanno lo stesso significato.

E cosa sono questi cinque mariti? Questa regione era stata popolata da coloni provenienti da altre nazioni i quali avevano portato le loro divinità. Per questo motivo su cinque monti erano stati costruiti cinque templi a cinque divinità. E anche sul monte Garizim era stato costruito il tempio a Jahvè. Quindi adoravano anche Jahvè, il Dio riconosciuto dal popolo ebraico, ma insieme agli altri dei.

La donna capisce che quello che ha chiamato Signore è un profeta, e si richiama all’antica tradizione.

«I nostri padri hanno adorato su questo monte, voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare»”.Ha compreso il richiamo di Gesù ed è disposta a tornare al vero Dio. Ma vuole sapere dove. Ci sono tanti santuari, specialmente quello importante sul Garizim, dove adorano il Dio di Israele, ma c’è anche quello di Gerusalemme. Lei è disposta a tornare al vero Dio, ma vuole sapere dove. Ed ecco la novità importante che Gesù proclama a questa donna samaritana: la fine del tempio e la fine del culto:

«Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre»”. Le si rivolge chiamandola “donna”/ “spa”. Lei s’è richiamata ai padri: “i nostri padri”, Gesù la invita ad accogliere il Padre; lei pensava di andare in un qualche luogo per offrire a Dio offerte e sacrifici, ma ora è iniziata l’epoca in cui è Dio che si offre agli uomini, e chiede di essere accolto per aumentare la loro capacità d’amore e renderli capaci di un amore generoso e incondizionato, come il suo.

Ed ecco l’importante annuncio di Gesù: “«Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità»”.Spirito e verità” è un’espressione che indica l’amore fedele. L’unico culto che Dio chiede non parte dagli uomini verso Dio, ma dal Padre verso gli uomini. E’ la comunicazione del suo amore che l’uomo fa proprio, e l’unico culto che Dio gli chiede è il prolungamento di questo amore. Spirito e verità significa amore vero.

Quand’è che l’amore è vero? Quando l’amore è fedele. Infatti il Padre vuole che-…e qui c’è da fare attenzione alla traduzione… La traduzione della CEI è così: “«quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità»”. Nel testo originale l’evangelista scrive: “«Infatti il Padre cerca tali adoratori»”.E’ tanta l’urgenza del Padre di manifestarsi agli uomini, che il Padre li cerca per realizzare il suo disegno d’amore. Ed ecco l’espressione stupenda di Gesù: “«Dio è spirito»”.

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LUCE IN FONDO AL TUNNEL

DOMENICA 8 marzo 2020 – II di Quaresima

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.

Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.

Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti»

(dal Vangelo di Matteo 17.1-9).

La luce in fondo al tunnel… è il modo di dire quando in una situazione di difficoltà profonda che genera sofferenza e paura si intravede un termine, una soluzione, anche se non si sa bene ancora quando e come arriverà.

Tutti i tunnel che si percorrono in auto sulle strade o in treno hanno la loro luce alla fine, e non sono come le gallerie di una miniera che invece hanno una luce solo all’ingresso e non portano che sempre più in profondità e nel buio.

I discepoli che sono con Gesù, e che hanno iniziato con entusiasmo il loro cammino con questo Maestro straordinario, sono talvolta tentati di pensare che le crescenti difficoltà che sta incontrando con le autorità religiose siano una specie di galleria di una miniera, cioè una strada senza uscita. Sembra non esserci una luce alla fine della storia, e la croce sembra un buio punto di arrivo senza speranza.

Sul Monte della Trasfigurazione, che l’evangelista Matteo colloca in un luogo imprecisato (così che diventa ogni luogo e ogni vita, anche la nostra) Gesù fa intravedere una luce in fondo al tunnel della sua missione, diventando lui stesso luce e segno di speranza. Gesù di Nazareth, Maestro brillante e buono, uomo però come tutti, quindi soggetto a rimanere schiacciato dalla storia, si mostra per un attimo (non sappiamo quanto dura questo strano fenomeno che viene descritto) in tutta la sua chiarezza. Lui è il figlio amato da Dio, è la risposta a tutte le attese religiose, incarnate da Mosè e Elia, la Legge e i Profeti.

Gesù diventa luminoso agli occhi, ma soprattutto al cuore dei suoi discepoli. E la voce di Dio Padre risuona anch’essa nel cuore raggelato dalla paura e lo scalda con un invito chiaro: “Ascoltatelo!”

Tutto questo sembra troppo grande per gli stessi discepoli che si sentono come schiacciati da questa rivelazione di luce. Ma alla fine Gesù si ripresenta con il suo volto umano di sempre e rivolge loro queste parole umanissime di rassicurazione: “Alzatevi e non temete”.

In questi giorni stiamo vivendo un periodo di angoscia e paura in Italia. Non possiamo non tirare dentro questa riflessione sul Vangelo l’esperienza di vita che ci sta legando tutti e ci fa sentire tutti come dentro un tunnel. L’epidemia del Coronavirus che tocca tutti ci sta contagiando il cuore prima ancora dei polmoni. Siamo impauriti e pensiamo di esser entrati nella galleria di una miniera, destinati solo a sprofondare sempre di più nel buio. È la sensazione di molti anche per tante altre situazioni che magari coinvolgono singoli e famiglie quando si affronta un lutto, un tracollo finanziario, una malattia. Ma ora questa paura e questa sensazione di non aver via d’uscita ci accomuna tutti. Forse già questo fatto è un aspetto che pur nella drammaticità degli eventi è positivo, e diventa occasione davvero di una solidarietà di sentimenti che non è solo di facciata.

Abbiamo tutti bisogno di vedere una luce in fondo al tunnel e questa luce c’è sicuramente. Nella storia non è la prima volta che una grande tragedia coinvolge tutti allo stesso tempo. E alla fine con la forza e la determinazione di tutti si è riusciti ad andare oltre.

Forse ora non vediamo la luce in fondo al tunnel di questa epidemia, anche perché i nostri occhi forse sono troppo occupati a guardare noi stessi e sono chiusi dalla paura. Per me leggere e meditare questo episodio del Vangelo mi dà grande speranza perché so che come Gesù ha rincuorato i suoi discepoli impauriti e stanchi con un momento di luce, così lo fa per me e per tutti noi.

                                                                                                                         Giovanni don


 QUARESIMA – 1 marzo 2020

GESU’ DIGIUNA PER QUARANTA GIORNI

NEL DESERTO ED È TENTATO

Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI

Mt 4,1-11

Allora Gesù fu condotto dallo Spiritonel deserto, per essere tentato dal diavolo.

Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame.

Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».

Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».

Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose IO ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».

Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

*

La prima domenica di quaresima si apre con il vangelo di Matteo che presenta le tre tentazioni del Cristo. Il numero tre significa quello che è completo, quello che è definitivo.

Quello che adesso leggeremo non è un episodio dell’esistenza di Gesù, ma l’evangelista vuol farci comprendere che in tutta la vita Gesù fu sottoposto a queste tentazioni, o a queste seduzioni. Vediamo cosa ci dice l’evangelista.

Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo”. Con il termine “allora” l’evangelista collega quest’episodio a quello che lo precede, il Battesimo di Gesù. Quando Gesù ha ricevuto lo Spirito del Padre. E il Padre lo riconosce come suo figlio perché Gesù manifesta il suo desiderio, il suo impegno di renderlo presente come amore per l’umanità. Conseguenza di questo impegno di Gesù, lo Spirito conduce Gesù nel deserto. Il termine “deserto” richiama almeno tre cose:

l’esodo: cioè la liberazione del popolo dalla schiavitù egiziana;

– durante questo esodo ci fu un periodo di tentazioni e provealle quali Dio sottopose il suo popolo;

il deserto era anche il luogo dove si radunavano tutti quelli che volevano conquistare il potere, con delle sommosse, con delle rivolte;

“…per essere tentato dal diavolo”:il verbo “tentare” nel vangelo è applicato ai farisei, ai sadducei e ai dottori della legge nella controversia con Gesù, e Gesù, ad ognuna di queste tentazioni dei farisei, dei sadducei, de dottori della legge, risponde con citazioni della Scrittura, esattamente come l’evangelista ci anticipa.

Il termine “tentazione” ha una connotazione negativa; in realtà il diavolo – come vedremo – non tenta Gesù affinché compia qualcosa di negativo o azioni peccaminose. Il diavolo non si presenta come un nemico, come un rivale di Gesù, ma come un suo alleato che lo vuole aiutare nella realizzazione del suo programma.

Pertanto, più che di tentazioni, dovremmo parlare di seduzioni.

In tutto il vangelo di Matteo il diavolo appare soltanto in questo episodio.

Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti…”:l’evangelista ci tiene a sottolineare che quello di Gesù non è il digiuno religioso che serviva per ottenere il perdono o la benevolenza da parte del Signore. Il digiuno religioso iniziava all’alba e terminava al tramonto; il fatto che l’evangelista sottolinei che ha digiunato quaranta giorni e quaranta notti, significa che non è un digiuno religioso. È una prova di forza come quella che ha fatto Mosè prima di ricevere le tavole dell’alleanza;

“…il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei il figlio di Dio…»”.Il tentatore non mette in dubbio la figliolanza divina di Gesù, che nel battesimo è stata confermata dalla voce del Padre che ha detto: “Tu sei mio figlio”. Questa espressione del tentatore “Se tu sei il figlio di Dio” non è un dubbio, ma significa “giacché sei figlio di Dio”, usa le tue capacità a tuo vantaggio.

«…dì che queste pietre diventino pane»”.La prima tentazione è usare le proprie capacità per il proprio vantaggio. Ma Gesù non userà le proprie capacità a proprio vantaggio, ma per il vantaggio degli altri. Gesù stesso si farà pane per gli altri.

E Gesù rispose: «Sta scritto: ‘non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio’»”.Queste tre tentazioni si rifanno a tre episodi conosciuti nel libro dell’Esodo, tre prove alle quali Dio ha sottoposto il suo popolo nel deserto e questa ricorda la prova della manna.

Cosa vuol dire Gesù citando questo testo del libro del Deuteronomio 8,3 ? Come i padri del deserto, ascoltando la Parola, sono stati sfamati con la manna, tanto più il nuovo popolo, la nuova liberazione di Gesù, ascoltando la sua Parola, sarà sfamato. Gesù non compirà un gesto prodigioso per sfamare la propria fame, ma la sua Parola aiuterà quanti lo accolgono e quanti lo seguono a condividere il pane con gli affamati.

Allora il diavolo lo portò nella città santa”cioè Gerusalemme “lo pose sul punto più alto del tempio”. Perché questo particolare? Perché in un apocrifo dell’AT – il IV Libro di Esdra – si pensava che il messia, che nessuno conosceva, si sarebbe manifestato improvvisamente, apparendo nel punto più alto del tempio, sul pinnacolo. Quindi questa era l’aspettativa dal popolo.

Allora il diavolo, che si mostra come aiutante di Gesù, dice: “Fai quello che il popolo s’attende, fai quello che il popolo desidera, anzi dagli un tocco di più”. E gli dice per la seconda volta: “«Se tu sei figlio di Dio»” – cioè “giacché sei figlio di Dio – “«gettati giù»”: cioè mostrati come la gente ti aspetta: nel punto più alto del tempio, dai un tocco straordinario di forza che faccia comprendere che tu sei veramente il figlio di Dio. “Gettati giù”: e cita il salmo. Con questa contrapposizione tra botta e risposta attraverso citazioni scritturistiche, l’evangelista ci vuol far comprendere che non è un episodio quello che lui sta raccontando, ma in tutta la vita Gesù sarà contrastato dai farisei, dagli scribi, dagli anziani, che penseranno di avere la Scrittura dalla loro parte per bloccare o per inibire l’azione di Gesù. E infatti cita il salmo 91,11-12: “«ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo …»”,cioè sfida Gesù a fidarsi di Dio.

Questa tentazione la ritroveremo in bocca ai sommi sacerdoti, agli scribi e agli anziani, al momento della crocifissione di Gesù: “Se sei il figlio di Dio…” = giacché sei il figlio di Dio – scendi dalla croce”, cioè manifesta un Dio di potere.

Gesù rispose: “«Sta scritto anche: ‘Non metterai alla prova il Signore Dio tuo’»”.Anche questo è un brano della Scrittura (Deuteronomio, 6, 16): è l’episodio di Massa, una delle tentazioni del popolo nel deserto, quando il popolo si chiese “Ma Jahvè è in mezzo a noi, sì o no?”. Quindi il popolo dubitava della presenza del Signore. Gesù ha piena fiducia nel Padre e non ha bisogno di invocare interventi esterni straordinari che confermino questa sua fiducia.

Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo”.: qui la traduzione non è esatta, perché qui dice “lo portò”: non ce l’ha mai portato, quindi non può essere tradotto con “di nuovo”; il termine greco va tradotto esattamente con “questa volta”. Questa tentazione è diversa dalle altre. Le due precedenti sono state precedute dall’affermazione “Giacché sei il figlio di Dio”, quindi in conseguenza delle capacità e della potenza di essere figlio di Dio. In questa tentazione il diavolo non mette in ballo il fatto della figliolanza divina, anche perché è una tentazione che è adatta ad ogni uomo.

Allora l’evangelista scrive: Questa volta il diavolo lo portò sopra un monte altissimo”.Perché il monte altissimo? Nell’antichità il monte era il luogo della residenza degli dèi e indicava la condizione divina. Quindi il diavolo offre a Gesù di possedere la condizione divina.

Va ricordato che, a quell’epoca, tutti quelli che detenevano un potere, si riteneva che avessero la condizione divina. Il faraone era un Dio, l’imperatore era figlio di Dio…. Quindi tutti coloro che detenevano il potere avevano la condizione divina e il diavolo offre a Gesù la condizione divina.

Come? Gli mostrò tutti i regni e la loro gloria”cioè la loro ricchezza “e gli disse: «Tutte queste cose ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai»:. il diavolo propone a Gesù la condizione divina: adorare il potere per dominare il mondo.

Allora Gesù gli rispose: «Vattene satana!»”:lo chiama satana, usando il nome ebraico. L’evangelista vuol far comprendere che queste sono le tentazioni che a Gesù vengono dal suo popolo.

«Sta scritto infatti: ‘Il Signore Dio tuo adorerai: a lui solo renderai culto’»”: anche questa volta è una citazione della Scrittura, dal libro del Deuteronomio 6, 13, dove il Signore mette in guardia il suo popolo dal pericolo dell’idolatria entrando nella terra di Canaan. Per Gesù il potere è idolatria.

Gesù è figlio di un Dio amore che si esprime attraverso il servizio, mentre il diavolo è immagine del potere che domina le persone.

Allora il diavolo lo lasciò ed ecco gli angeli gli si avvicinarono e lo servivano”.Gesù ottiene la protezione degli angeli rifiutando la tentazione.

Queste tentazioni di Gesù, come abbiamo detto, non sono un episodio isolato della sua esistenza, ma l’evangelista ci anticipa tutto quello che accadrà per tutta la vita di Gesù, continuamente sedotto dal prendere il potere, perché era questo che il popolo si aspettava.

E quando il popolo s’accorgerà che Gesù non è un messia di potere, lo rifiuterà e lo ucciderà.

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VII TEMPO ORDINARIO – 23 FEBBRAIO 2020

AMATE I VOSTRI NEMICI

Commento al vangelo di p. Alberto Maggi OSM

Mt 5,38-48

(In quel tempo,)

Gesù disse ai suoi discepoli:

«Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”.

Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.

Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”.

Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?

Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

*

Gesù propone una nuova relazione con Dio, che non può essere più contenuta nell’antica alleanza. Per questo, nel vangelo di Matteo, al capitolo 5, dopo aver proclamato le Beatitudini, Gesù inizia una serie di prese di distanze, dicendo:

«Avete inteso che fu detto:occhio per occhio e dente per dente”…”e, anziché dire, come avrebbe dovuto, “Avete inteso che fu dettoai padri”, o “agli antichi”, Gesù non fa riferimento a qualcosa di vecchio.

Questa è la quarta volta che Gesù ripete l’espressione, dice: “Avete inteso che fu detto…. Questa Legge, che è conosciuta come la legge del taglione, e che indubbiamente fa orrore per questo senso di vendetta. In realtà, per quel tempo, fu un progresso perché la vendetta era illimitata ed era spietata, come racconta, nel libro del Genesi, l’episodio di Lamec, che si vantava: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfitura ed un ragazzo per un livido”.

Nel libro del Deuteronomio, alla fine del capitolo 19, l’autore dice: “Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”. È una legge dove non esiste compassione, ma secondo la quale bisogna far pagare al colpevole tutto il danno che ha fatto.

Gesù prende le distanze da tutto questo: “Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra”. E’ possibile?

Bisogna tener presente che l’unica volta che Gesù ha ricevuto uno schiaffo, si è guardato bene dal porgere l’altra guancia. Allora che cosa significa questa affermazione di Gesù? È un invito ad essere buoni fino in fondo: egli disinnesca la rabbia, disinnesca l’aggressività dell’altro con la bontà.

E a chi ti vuole portare in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello”: evidentemente si tratta di una persona prepotente. Ebbene, dice Gesù, lasciagli anche quello che non bramava prendere. Il mantello serviva anche come coperta nella notte: lui s’impaccerà con il tuo mantello e tu sarai più libero. Gesù invita ad avere questa piena libertà, tutta basata nel disinnescare l’aggressività degli altri.

Egualmente se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio” Gesù si rifà alle leggi delle forze di occupazione, che imponevano degli esercizi forzati, delle prestazioni forzate alle persone come sarà per il Cireneo costretto a portare la croce di Gesù che sale il Calvario – “tu fanne con lui due” : quindi disarma col tuo amore l’aggressività dell’altro, perché se tu all’aggressività rispondi con altra aggressività, questa cresce e non si sa dove si va.

Poi Gesù dà un’indicazione molto chiara per la comunità cristiana:

Da’ a chi ti chiede” : dare non è perdere, ma è guadagnare, perché quando si dà, poi il Padre dona con più abbondanza, “e a chi desidera da te un prestito, non voltare le spalle : una certa ironia fa riferimento al fingere di non sapere – quindi Gesù invita ad avere attenzione al bisognoso, a chi ti chiede, senza fare calcoli….

Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico…” : al precetto di amare il prossimo, si aggiunge quello dell’odio del nemico. Possiamo trovare questa espressione nei Salmi. Per esempio il salmo 139 dice: “Quanto odio Signore quelli che ti odiano, quanto detesto quelli che si oppongono a te, li odio con odio implacabile” : quindi si univa l’amore al prossimo con l’odio ai nemici. Con Gesù, nella nuova relazione che c’è con il Padre e con i fratelli, tutto questo viene a cessare: ma io vi dico amate i vostri nemici : è un amore generoso, un amore che si fa dono; quello che chiede Gesù e l’amore che si fa preghiera: pregate per quelli che vi perseguitano, che sono i vostri nemici. Perché? “… affinché siate figli del Padre vostro.

Figlio, nella cultura dell’epoca, non s’intende soltanto colui che è nato da qualcuno, ma colui che gli assomiglia nel comportamento, quindi: “affinché assomigliate al Padre che è nei cieli”.

Gesù, oltre a dare indicazione ai suoi su come comportarsi, ci svela chi è Dio: “egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”.

Il profeta Amos in realtà non era stato d’accordo; egli presentava un Dio che rifiutava la pioggia agli ingiusti. Il Dio di Gesù invece non è un Dio che premia i buoni e castiga i malvagi, ma è un Dio-amore, è un Dio che a tutti – indipendentemente dalla loro condotta – mostra il suo amore. Come ha detto Gesù, fa sorgere il sole non soltanto su chi lo merita, ma sui cattivi e sui buoni, su tutti quelli che ne hanno bisogno.

Gesù passa dalla teoria della dottrina del merito, a quella del dono: Dio non ama le creature per i loro meriti, ma per i loro bisogni.

E Gesù commenta: “infatti se amate quelli che vi amano quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?” : i pubblicani erano le persone ritenute trasgressori di tutti i comandamenti, i più lontani da Dio.

E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” : Gesù cita pagani e pubblicani, categorie che erano considerate le più lontane da Dio. Anche loro sono capaci di salutare chi li saluta e di amare chi li ama; che c’è di straordinario nel fare questo?

E allora Gesù conclude: Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste»”: Gesù non chiede di essere perfetti come Dio, il che potrebbe dare un senso di smarrimento alla persona, come potrebbe sembrare.

Gesù parla di essere perfetti – che significa completi – come il Padre. E qual è la perfezione del Padre? Quella di un amore che si rivolge a tutti, di un amore che non guarda i meriti, non si rivolge solo a chi lo merita, ma guarda ai bisogni.

Questo rimane nelle possibilità di ogni credente.

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quale maschera scegliamo?

Giovanni don (Gioba)

domenica 23 febbraio

“In questo mondo tutti sono orrendi… Sono tutti lì a urlare uno contro l’altro, nessuno è più educato, nessuno più si mette nei panni dell’altro!”.

È quello che dice al culmine della sua pazzia Arthur Fleck che, diventato Joker, si macchia di orrendi delitti nella metropoli di Gotham-City.

La storia di fantasia narrata nel film Joker”, è una storia in cui la cattiveria del cattivo sembra nascere non solo dal di dentro, ma anche dal luogo dove vive e dalle persone che lo circondano.

Arthur diventa lo spietatissimo Jokerperché il suo mondo è senza pietà, senza amore, circolo vizioso di vendette, ritorsioni e indifferenza verso chi soffre.

Il mondo di Jokerè quello del “occhio per occhio, dente per dente”, dell’odio verso il nemico, della vendetta per chi ti fa un torto, e separazione profonda tra ricchi e poveri, dove anche chi ti vive nell’appartamento accanto per te non esiste.

Il successo meritatissimo di questo film, interpretato in modo strepitoso da Joaquin Phoenix, è forse dovuto perché smaschera in chi lo guarda quel fondo di cattiveria che abbiamo dentro e perché rappresenta la nostra società in modo terribilmente vero.

Ed è questo il mondo che Gesù è venuto a rivoluzionare, questo mondo in cui si giustificano le vendette, le chiusure e la violenza.

Gesù vuole convertire il nostro modo di vivere le relazioni umane, immedesimandosi proprio nel più povero e diseredato. Gesù è entrato pienamente nella violenza degli uomini per spezzare quel circolo che crea violenti e genera dolore.

Avete inteso che fu detto… ma io vi dico…”, è una proposta di un mondo nuovo, dove è possibile amare più dell’amore ricevuto, dove si può amplificare la compassione, la gentilezza, l’altruismo e il perdono, e nello stesso tempo smorzare tutti i segni di divisione, vendetta e indifferenza.

Sembra un’utopia amare i nemici, pregare per chi ci vuol male, non vendicarsi, cercare legami anche con chi non conosciamo o non vorremmo conoscere.

Sembra davvero un mondo impossibile, ma è l’unica possibilità per far sì che tutti quanti non ci trasformiamo in Joker, con una maschera da clown, con un finto sorriso di finta felicità.

Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, dice Gesù ai suoi discepoli.

Sembra la proposta di un film di fantascienza, bello quanto impossibile.

Pensiamo che essere “come Dio” sia possibile solo con effetti speciali, pensiamo che la realtà è diversa e siamo condannati solo a difenderci per non venire fregati in questo mondo.

Se pensiamo così noi cristiani, allora davvero il Vangelo è finito! Se pensiamo che è impossibile perdonare chi ci fa un torto, se pensiamo che sia impossibile tendere la mano anche a chi è diverso da noi in stile di vita, pensiero, nazionalità e cultura, allora si che quello che Gesù ha detto è solo una battuta da copione, ma niente più.

Voglio davvero crederci che la proposta di Gesù “ma io vi dico…” è possibile, anzi è la strada meravigliosa per creare un mondo davvero come Dio vuole.

Voglio credere che posso essere come Dio non nei superpoteri, ma nel super-amore che mi rende capace di cose ben più incredibili del volare o fare magie, ma mi fa amare come lui, come Gesù stesso ha mostrato.

Joker si dipinge una maschera da clown per nascondersi, ma la maschera che noi abbiamo ricevuto non tanto sulla faccia ma sul cuore è quella di Cristo. Quale scegliamo?

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VI TEMPO ORDINARIO – 16 febbraio 2020

COSÌ FU DETTO AGLI ANTICHI; MA IO VI DICO

Commento al vangelo di p. Alberto Maggi OSM

Mt 5,17-37

(In quel tempo,)

Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto.

Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.

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  1. Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico:chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna.

Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!

  1. Avete inteso che fu detto: “Non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna.
  2. Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
  3. Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico:non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno».

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Il vangelo di questa domenica è molto lungo e non è pensabile, nel limitato tempo che abbiamo a disposizione, poterlo leggere e commentare tutto, per cui centriamo l’attenzione soltanto nei primi versetti, anche perché sono i più controversi e, forse, i più importanti.

È il capitolo 5 di Matteo, dal versetto 17 al 37. Afferma Gesù: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti”: il contesto di questa affermazione di Gesù è la proclamazione delle beatitudini.

La nuova relazione che Gesù è venuto a proporre con Dio, non poteva più essere contenuta nella vecchia alleanza di Mosè. Mosè era il servo del Signore e aveva imposto un’alleanza tra dei servi ed il loro Signore, basata sull’obbedienza alla sua legge, per cui il credente, con Mosè, era colui che obbediva a Dio, osservando le sue leggi.

Ma Gesù non è il servo di Dio, Gesù è il figlio di Dio, che è venuto a proporre una nuova relazione, basata sull’accoglienza e sulla pratica dell’amore del Padre, per cui il credente è colui che assomiglia al Padre, praticando un amore simile al suo.

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p. CASTILLO

1. Il contesto del tema fondamentale posto qui da Gesù, ha la sua ragion d’essere e la sua spiegazione in quello che noi cristiani chiamiamo il Mistero dell’Incarnazione. Dio si è «incarnato». Cioè, Dio si è umanizzato. Ossia, Dio si fa presente in ogni essere umano. Non incontriamo il Dio di Gesù nel «sacro», ma nell’«umano». Ecco perché Gesù sottolinea più chiaramente che la migliore relazione con Dio non si gioca nella relazione con Dio, ma nella migliore relazione possibile con gli esseri umani. La religiosità di Gesù si vive nell’alterità. Voler star bene con Dio, finché si mantengono relazioni torbide, distaccate o perverse con altre persone, è il più grande inganno di cui soffrono le persone religiose.

2. Queste le conseguenze:

1) Non avvicinarti all’altare, se sai che qualcuno ha da lagnarsi contro di te.

2) Non dire mai nulla che offenda o disturbi qualcuno.

3) Prima che diventino cose meritevoli di denuncia, regola amichevolmente i tuoi problemi con gli altri.

4) Non ti domini il desiderio di appropriarti di quello che non ti appartiene: della moglie di un altro, o di quello che è di un altro, comunque [Es 20,17].

5) non giurare, ossia non mettere Dio dove non lo devi mettere; la tua credibilità deve essere tale che basta la tua parola.

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PRESENTAZIONE DEL SIGNORE – 2 febbraio 2020

I MIEI OCCHI HANNO VISTO LA TUA SALVEZZA

Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI

Lc 2,22-40

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.

Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».

Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».

C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.

Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret.

Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

*

Nonostante la straordinaria esperienza che i genitori di Gesù hanno avuto, in particolare sua madre, essi sono ancora ancorati alla tradizione del popolo che vede il rapporto con Dio basato sull’osservanza, sull’obbedienza alla sua legge.

L’evangelista in questo episodio vuole anticipare e raffigurare la difficoltà che avrà Gesù nel proporre al suo popolo una diversa relazione con Dio non più basata sull’obbedienza alle sue leggi, ma sull’accoglienza del suo spirito, del suo amore.

Ecco allora che l’evangelista, nell’episodio conosciuto come la presentazione di Gesù al tempio, presenta due comitive contrarie: una raffigurata dai genitori di Gesù che portano il bambino per adempiere un rito che ormai è inutile, perché essi intendono fare figlio di Abramo colui che invece è già figlio di Dio; dall’altra parte c’è l’uomo dello Spirito, Simeone, intenzionato ad impedire l’inutile rito.

I genitori vanno anche per la prevista purificazione della madre – perché, secondo la tradizione, la nascita di un bambino rendeva impura la madre e quindi la donna doveva purificarsi attraverso un’offerta; e qui è riferita l’offerta dei più poveri: una coppia di tortore o di giovani colombe – come contributo per pagare il riscatto del figlio che dalla nascita appartiene a Dio.

Ogni primogenito maschio che nasceva, infatti, il Signore lo voleva per sé. Se i genitori lo volevano dovevano pagargli l’equivalente di venti giornate di lavoro, cioè cinque sicli.

Mentre Maria e Giuseppe si dirigono con il bambino verso il tempio per compiere questo rito, l’evangelista ci presenta con sorpresa – l’evangelista adopera un’espressione che indica meraviglia – Ecco, a Gerusalemme c’è un uomo di nome Simeone.

Simeone significa “il Signore è ascoltato”, è l’uomo dello Spirito, che tenta di impedire l’inutile rito. Infatti Simeone prende il bambino tra le braccia, mentre i genitori volevano adempiere ogni cosa prevista dalla Legge, e pronuncia una profezia che lascia sconcertati i genitori.

Infatti di Gesù dice: egli sarà gloria del tuo popolo, Israele! – e questo Maria e Giuseppe lo sapevano, era il compito del Messia, del Figlio di Dio – ma aggiunge come novità: luce per rivelarti alle genti, cioè ai popoli pagani.

L’amore di Dio, annuncia Simeone, è universale, non è più per il solo popolo eletto, ma per tutta l’umanità. Pertanto i nemici di Israele, cioè i pagani, non dovranno più essere dominati, come essi credevano, come la tradizione presentava, ma accolti da fratelli.

Poi a Maria dà una benedizione, che finisce in una maniera abbastanza preoccupante. Gesù è raffigurato con quello che Luca più avanti nel suo vangelo presenterà come “una pietra”, pietra che può essere angolare che serve per la costruzione, o la pietra che fa inciampare le persone, e infatti dice di Gesù: Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele”.

E, come segno di contraddizione anche a te,si rivolge a Maria, la madre di Gesù, una spada trafiggerà l’anima,cioè la tua vita. Qual è il significato di questa spada che trafigge l’intera vita di Maria?

La spada, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, raffigura la parola di Dio, che è efficace come una spada. Così dirà l’autore della lettera agli Ebrei: la parola di Dio è come una spada che arriva fino alle giunture e alle midolla e al punto di divisione dell’anima e dello Spirito. Quindi a Maria, che raffigura il popolo di Israele, Simeone annuncia che la parola di questo figlio per lei sarà come una spada che la costringerà a fare delle scelte, a volte anche molto dolorose.

E’ ancora lungo il cammino di Maria. Maria dovrà comprendere che da madre del figlio dovrà trasformarsi in discepola. Un cammino lungo e doloroso, come una spada che trafigge l’anima.

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III TEMPO ORDINARIO – 26.01.2020

VENNE A CAFARNAO

PERCHE’ SI COMPISSE CIO’ CHE ERA STATO DETTO DAL PROFETA ISAIA

Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI

Mt 4,12-23

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa:

«Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta».

Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».

Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono.

Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.

Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

*

L’evangelista Matteo presenta in questo brano l’inizio dell’attività di Gesù. Una volta venuto a sapere che Giovanni è stato arrestato e quindi l’aria si fa pesante e difficile in Giudea, Gesù sale al nord, nella Galilea, nella regione abbastanza disprezzata:lascia Nazareth, il suo paese natale, e va ad abitare a Cafarnao…”. E’ interessante il fatto che né Nazareth né Cafarnao vengono mai nominate nell’Antico Testamento, comunque Cafarnao era una città di frontiera, importante posto di dogana;

“…sulla riva del mare”,in realtà è un lago. Con questo sotterfugio, sostituendo “lago” con “mare”, l’evangelista vuol dare un’indicazione teologica: il mare era quello che separava Israele dai pagani, ma soprattutto il popolo ricordava che il mare era quello che Israele aveva attraversato per fuggire dalla schiavitù egiziana. Quindi indicava la piena liberazione. Tutta la tematica dell’evangelista è in chiave di Esodo e Gesù è il nuovo Mosè che viene a liberare il suo popolo.

L’evangelista vede nella scelta di Gesù di salire in Galilea, la realizzazione della promessa di liberazione messianica: passare da una situazione di oppressione a una situazione di salvezza di un territorio che era stato devastato dagli Assiri. Cita il profeta Isaia (8,23), dove si parla di Galilea delle genti. Mentre la Giudea deve il suo nome a Giuda, uno dei patriarchi più importanti, questa regione al nord era invece talmente disprezzata – una regione abitata da poveri, da bifolchi, da gente violenta – e la popolazione della Giudea era talmente disgustata da quelli del nord, che lo stesso Isaia non sa come definire questa regione e usa un termine dispregiativo e la chiama ‘la provincia o il distretto dei non ebrei’.

Il distretto in ebraico si dice Gelil, da cui deriva il termine Galilea. Galilea deriva da questo termine considerato dispregiativo, col quale il profeta Isaia indica questa regione al nord. Ebbene, proprio in questa regione disprezzata, a nord, dove il popolo abita nelle tenebre, proprio lì è sorta la luce. L’evangelista anticipa quella che poi sarà l’azione di Gesù, “luce del mondo”: comunicare ai suoi stessi discepoli la possibilità di essere luce del mondo.

E Gesù inizia la sua attività: Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi …»” : il verbo ‘convertire’ nel testo greco dei vangeli si trova espresso in due maniere: una che indica un ritorno religioso a Dio, l’altra – quella che adopera qui l’evangelista – significa un cambio di mentalità che incide sul comportamento.

Gli evangelisti – e Matteo in particolare – evitano il primo termine (quello che indica il ritorno religioso a Dio). Con Gesù, il Dio con noi, non c’è più da tornare verso Dio, ma accogliere l’amore di Dio e con lui e come lui andare verso gli altri, per cui la conversione significa orientare diversamente la propria esistenza. Se fino ad ora si è vissuti per sé, d’ora in poi si vivrà per gli altri. Questa conversione è finalizzata al fatto che «…il regno dei cieli è vicino!»”. Non è ancora la realtà perché il regno dei cieli si realizzerà lentamente con l’accoglienza delle beatitudini. In particolare la prima beatitudine permetterà la realizzazione del regno dei cieli.

Ma cosa si intende per ‘regno dei cieli’? Gesù non parla di un regno nei cieli, cioè l’aldilà, ma “Regno dei cieli”, espressione che troviamo soltanto nel vangelo di Matteo e indica il regno di Dio.

Matteo, che scrive per una comunità di ebrei, evita di usare il termine ‘Dio’ tutte le volte che gli è possibile, per non offendere la sensibilità dei suoi lettori e, quando gli è possibile, usa dei sostituti. Uno di questi termini era ‘cieli’, quindi regno dei cieli non significa l’aldilà, ma Dio che è considerato il re del popolo e si permette a Dio di governare il suo popolo. Allora la conversione, il cambiamento della propria esistenza, è per permettere questa realizzazione del regno, che diventerà realtà con l’accoglienza della prima beatitudine.

Il regno dei cieli, il regno di Dio, non è una realtà che cade dall’alto, ma richiede la collaborazione dell’uomo. Ebbene, “Mentre camminava lungo il mare, Gesù vide due fratelli, Simone chiamato Pietro e Andrea.: questi due personaggi hanno nomi greci, quindi significa che provengono da una famiglia abbastanza aperta. Simone in particolare è conosciuto per la sua testardaggine, infatti ha un suo soprannome, ‘pietra’, che significa la sua caparbietà, la sua durezza, che poi verrà scoperta lungo tutto il vangelo;

“…che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori”: il richiamo dell’evangelista è alla profezia contenuta nel libro di Ezechiele, capitolo 47,10, dove sta scritto: “il tempo del messia sarà un tempo di abbondanza per i pescatori”.

Gesù disse loro: «Venite dietro a me…»”:è interessante notare: Gesù per iniziare la sua comunità, il gruppo con il quale inaugurare il regno di Dio, non va in cerca di monaci – c’erano gli esseni – non chiama le persone pie, i farisei, non chiama neanche gli appartenenti al clero, i sacerdoti; non chiama neanche persone potenti, benestanti, quelli erano i sadducei, né tanto meno i teologi, gli scribi, ma chiama gente umile e normale: dei pescatori;

«…vi farò pescatori di uomini.»”:questo titolo, che esprime la missione alla quale Gesù chiama i suoi, verrà abbandonato presto dalla chiesa! Preferiranno farsi chiamare pastori, titolo che Gesù non ha dato a nessuna persona – lui è l’unico pastore – anziché pescatori di uomini, che è quello che Gesù chiede ai suoi di fare.

Che significa pescatori di uomini? Mentre pescare il pesce significa tirar fuori il pesce dal suo habitat naturale per dargli la morte, pescare gli uomini significa tirarli fuori dall’acqua, simbolo del male, simbolo della morte, per salvarli, per dare loro vita. Quindi la proposta di Gesù è di andare dietro di lui per comunicare vita a tutta l’umanità; “Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono”.

Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò: è la chiamata di altri due fratelli, Giacomo e Giovanni, che hanno nomi ebrei, e si vedrà poi nel corso del vangelo il loro atteggiamento che rispecchia il loro nome.

Qui l’evangelista sottolinea che c’è la presenza del padre, Zebedeo. Gesù li chiama, Essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono”: per seguire Gesù bisogna abbandonare anche il padre. Il padre indica l’autorità e per seguire Gesù bisogna abbandonare il padre perché l’unico Padre all’interno della comunità dei credenti è il Padre che è nei cieli, che non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro la sua stessa capacità d’amore.

Gesù percorreva tutta la Galilea”questa regione disprezzata – “insegnando nelle loro sinagoghe e annunziando il vangelo del Regno”: l’evangelista adopera due verbi differenti per l’azione di Gesù. Nelle sinagoghe insegna, e insegnare significa prendere dal patrimonio dell’Antico Testamento per poi proporlo. Quindi nelle sinagoghe Gesù prende quella che è la ricchezza del popolo, contenuta nell’Antico Testamento, e gliela propone. Ma, per annunciare la buona notizia del Regno, Gesù non insegna, ma annuncia o predica. Sono due verbi differenti. Quando si rivolge agli ebrei Gesù insegna, quando si rivolge a persone miscredenti o fuori della Legge, Gesù annuncia. Questo significa cogliere il nuovo senza il bisogno di andare a ripescare l’antico.

Per la prima volta in questo vangelo, appare il termine ‘vangelo’ che significa ‘buona notizia’. La buona notizia è quella del Regno. Come? Guarendo ogni sorta di malattie e infermità nel popolo”.Notate che non sono ‘del popolo’, ma ‘nel popolo’, cioè Gesù libera da quegli impedimenti che ostacolano l’accoglienza del suo messaggio di pienezza di vita nel popolo, e quindi inizia così a dilagare l’attività di Gesù: inizia il nuovo, inarrestabile esodo.

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II TEMPO ORDINARIO – 19 gennaio 2020

ECCO L’AGNELLO DI DIO, COLUI CHE TOGLIE IL PECCATO DEL MONDO

Commento al vangelo di p. Alberto Maggi OSM

Gv 1,29-34

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».

Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

*

Nel libro dell’Esodo, la notte della liberazione dalla schiavitù egiziana per iniziare il lungo percorso, il cammino verso la terra della libertà, Mosè chiede, ad ogni famiglia, di mangiare un agnello. La carne dell’agnello avrebbe dato la forza per iniziare questo percorso di libertà, e il sangue, asperso sugli stipiti delle tende, delle porte, li avrebbe salvati dall’ angelo della morte.

L’evangelista Giovanni presenta Gesù come agnello, l’agnello pasquale, la cui carne darà la capacità all’uomo di liberarsi dalle tenebre, per elevarsi verso la libertà, e il cui sangue assimilato lo libererà non tanto dalla morte fisica, ma dalla morte per sempre.

Leggiamo Giovanni 1, 29-34:

“Il giorno dopo,…” : l’ evangelista continua con una sua datazione; questo il secondo giorno, perché vuole arrivare a presentare – nell’episodio delle nozze di Cana, al settimo giorno – la pienezza della creazione, con il cambio dell’alleanza;

“…vedendo Gesù…” : è la prima volta che Gesù appare soltanto con il nome (nel prologo – vers. 17) era detto Gesù messia)

“…venire verso di lui, disse: «ecco…” – letteralmente guardate!, richiama l’attenzione dei presenti, “…ecco l’agnello di Dio!… ” : l’evangelista presenta Gesù come colui che porterà la liberazione.

colui che toglieil peccato del mondo”: per Giovanni Battista è l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo – non dice che espia ma toglie –- e non si tratta dei peccati del mondo al plurale, che potrebbe dare la sensazione dei peccati singoli degli uomini – ma è il peccato che precede la venuta di Gesù. Cos’è questo peccato? È IL RIFIUTO DELLA VITA CHE DIO COMUNICA, è il rifiuto che è dovuto alle false ideologie, anche religiose, che impediscono alla luce dell’amore di Dio, di arrivare all’uomo.

Ecco il compito di quest’ agnello è quello di estirpare, eliminare questo peccato, che, come una cappa di tenebre, opprime il mondo;

“Egli è colui del quale ho detto: “dopo di me viene un uomo…” :

L’evangelista non lo presenta con un’immagine di potenza, avrebbe potuto presentare il messia come il leone di Giuda, no! come l’agnello, immagine della mitezza. E ora non lo presenta come una persona rivestita di cariche religiose, ma un uomo. Nell’umanità di Gesù si manifesta la pienezza della divinità.

“…che è davanti a me, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele»”. A quale Israele?

Tra i profeti ce n’era uno, Sofonia, che aveva riportato questa parola del Signore: “Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero, un resto di Israele che confiderà nel nome del Signore”. C’è stata una parte di Israele che è sempre stata fedele all’ alleanza, ed è a questa che il Signore si rivolge.

“Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere…” : l’articolo determinativo richiama alla totalità, alla pienezza; lo Spirito è energia vitale. Nel momento del battesimo, come risposta solidale all’impegno di Gesù nel manifestare visibilmente l’amore del Padre per l’umanità, il Padre gli comunica tutto quello che Lui è, tutta la sua pienezza d’amore, lo Spirito;

“…come una colomba dal cielo…” : l’immagine della colomba ha un duplice significato:

  • il richiamo al libro del Genesi, dove al momento della creazione lo Spirito aleggiava sulle acque, sul caos, quindi Gesù viene presentato come il compimento di questa creazione,
  • ma soprattutto richiama il proverbiale amore della colomba per il suo nido. Gesù viene presentato come il nido dello Spirito, la dimora permanente dello Spirito. Infatti dice: “…e rimanere su di lui”; e l’evangelista poi ci ritornerà: non basta che lo Spirito discenda su una persona. Per poter essere poi comunicato agli altri, bisogna che questo Spirito rimanga su questa persona, e su Gesù ci rimane. Gesù è la dimora permanente dello Spirito, cioè la manifestazione, la presenza visibile di Dio sulla terra.

Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito…” : l’evangelista ci ripete quindi l’invio e soprattutto il rimanere dello Spirito, di nuovo indicato con l’articolo determinativo: la totalità, la pienezza di Dio,

“…è lui che battezza nello Spirito Santo.”: l’evangelista mette un parallelismo tra colui che toglie il peccato del mondo e il come toglie questo peccato del mondo: è lui che battezza nello Spirito Santo.

Già nel prologo, l’evangelista aveva detto che la luce non combatte contro le tenebre, la luce splende nelle tenebre, e le tenebre si dileguano. E così questo peccato, che grava sull’umanità, non va combattuto, ma va eliminato, va estirpato. Dice l’evangelista: “è lui che battezza nello Spirito Santo : l’attività di Gesù sarà di immergere, battezzare, impregnare; e battezzare nell’acqua significa essere immersi simbolicamente in un liquido esterno. Battezzare nello Spirito Santo significa penetrare nell’intimo dello Spirito, che è la forza d’amore di Dio.

Questo Spirito viene ora definito Santo, non soltanto per la sua qualità eccelsa, divina, ma per la sua attività di santificare, di separare.

Chi accoglie Gesù con il suo messaggio, riceve da Gesù il suo Spirito, la sua stessa capacità d’amare, che progressivamente lo allontana dalla sfera del male.

“E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»” : quello che prima era stato presentato come l’agnello di Dio, e poi come uomo, ora viene presentato come IL FIGLIO DI DIO. Dal momento che in Gesù discende lo Spirito di Dio, in Gesù c’è la pienezza della condizione divina, che non sarà un privilegio che egli riterrà esclusivo per sé, ma sarà una possibilità che comunicherà a tutti quanti lo vogliono seguire.

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p. J.M. Castillo aggiunge questa bella immagine di richiamo biblico:

Lo Spirito di Dio è rappresentato nell’immagine di una colomba, che nella più bella espressione della Bibbia rappresenta l’amore umano, l’amore appassionato di un innamorato, che chiama la sua amata: «O mia colomba […], fammi vedere il tuo viso, fammi udire la tua voce» (Ct 2,14); «Aprimi, sorella mia, amica mia, mia colomba, mia perfetta» (Ct 5,2). Lo Spirito di Gesù – e lo Spirito della Chiesa – è uno Spirito di amore così forte, di affetto così appassionato, che deve ricorrere alle più audaci metafore dell’amore umano perché lo possiamo comprendere.

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BATTESIMO DEL SIGNORE – 12 gennaio 2020

APPENA BATTEZZATO, GESÙ VIDE LO SPIRITO DI DIO VENIRE SU DI LUI.

COMMENTO AL VANGELO DI P. ALBERTO MAGGI OSM

Mt 3,13-17

(In quel tempo, )

Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui.

Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare.

Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

*

Nel vangelo di Matteo l’attività di Gesù si apre all’insegna del battesimo. Con il battesimo Gesù diventa la manifestazione visibile del Padre. Le ultime parole di Gesù saranno l’invito ai discepoli di andare a battezzare, per diventare essi stessi manifestazione visibile del Padre. Vediamo quello che ci scrive l’evangelista Matteo (3, 13-17).

Allora “Gesù dalla Galilea venne…” (sopraggiunse): l’evangelista adopera lo stesso verbo che ha usato per indicare l’attività di Giovanni Battista all’inizio del capitolo 3. Questo per dire che Gesù – dopo una vita passata in Galilea nella consuetudine ordinaria del lavoro e dell’apprendimento sperimentando la presenza di genti molteplici – e realizza l’attività del Battista. Ma la sua venuta segna una meraviglia.

“…al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui”: il fatto che Gesù sia andato a farsi battezzare, ha causato sempre tanti problemi, già nella chiesa primitiva. C’è in un vangelo apocrifo, chiamato il vangelo degli Ebrei, addirittura Gesù stesso che protesta e dice “che peccato ho fatto io per andarmi a fare battezzare?”. Qui la difficoltà invece gli viene mossa proprio da Giovanni il Battista.

Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?»”: per comprendere la reazione di Giovanni e tutto il brano, occorre comprendere il significato del battesimo, che per noi ormai ha assunto quello di un rito liturgico, di un sacramento.

Il verbo BATTEZZARE non significa altro che immergere. Era un rituale ben conosciuto, che indicava la morte a quello che si era. Allora Giovanni Battista aveva invitato la popolazione ad andare a farsi battezzare, in segno di conversione, significava immergersi, volendo far morire l’uomo che era fino a quel momento, per far emergere una persona completamente nuova.

Era un rito simbolico che veniva adoperato, per esempio, per dare la libertà agli schiavi: moriva lo schiavo ed emergeva la persona nuova, libera. Quindi il battesimo era un segno di morte.

Allora qual è il significato del battesimo? Per il popolo significava morire a un passato ingiusto di peccato, ma per Gesù no. Per Gesù questa immersione significa l’accettazione nel futuro della morte, alla quale andrà incontro, per essere fedele alla missione di testimoniare l’amore del Padre. Nel momento presente è un gesto di solidarietà e condivisione con la folla. Questo il significato del battesimo di Gesù; in altri vangeli Gesù adopererà l’immagine del battesimo per indicare la sua morte. Ai due fratelli che chiedono di sedere accanto a lui, egli dirà: “potete ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Ecco allora l’impedimento da parte di Giovanni Battista:

Giovanni Battista, che ha predicato un messia vincitore, un messia giudice, un messia che viene a castigare, non può immaginare e non può tollerare l’immagine di un messia sconfitto, di un messia che subisce e va incontro alla morte.

Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia»”:

Nel libro del Deuteronomio si legge quest’espressione: “la giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica questi comandi, davanti al Signore nostro Dio, come ci ha comandato”. Quindi la giustizia significava essere fedeli all’Alleanza, e pertanto, alla volontà di Dio.

E qui l’evangelista inserisce una frase dal significato ambiguo: “Allora egli lo lasciò”. I traduttori completano questa espressione di Matteo, come questa traduzione della CEI, “Allora egli lo lasciò fare”, come se acconsentisse a Giovanni di battezzarlo, ma l’evangelista non dice questo, dice: “Allora egli lo lasciò. Perché? Questa espressione ritornerà nel capitolo quarto, quando il diavolo tenterà Gesù:Alla fine il diavolo lo lasciò”.

Allora l’evangelista, attraverso questa indicazione, vuol dire che, già dal momento in cui Gesù entra in scena, incominciano le difficoltà e incomincia la tentazione.

Qual è la tentazione? Tutti vogliono impedire che Gesù vada incontro alla morte, perché il messia non può morire, il messia non può finire. La prova che Gesù non è stato il messia è appunto che è morto, quindi questa possiamo chiamarla la prima tentazione. E’ una tentazione che, naturalmente, non gli viene dai nemici, ma proprio dalle persone che gli sono più vicine.

Appena battezzato…” – quindi appena Gesù s’immerge nell’acqua – “…Gesù uscì immediatamente”: è importante quest’espressione che adopera l’evangelista: l’acqua in cui viene immerso è simbolo di morte, ma la morte non può trattenere colui che è la pienezza della vita.

È tipico degli evangelisti che, ogni qualvolta accennano alla morte di Gesù, immediatamente danno anche un’immagine della sua risurrezione. Quindi appena Gesù s’immerge nell’acqua, esce immediatamente.

Ed ecco si aprirono per lui i cieli”: i cieli si riteneva che fossero chiusi perché Dio ero offeso con il suo popolo. Ma dal momento che Gesù con il battesimo accetta di manifestare visibilmente l’amore di Dio, la sua misericordia per tutta l’umanità, i cieli si aprono: attraverso Gesù la comunicazione tra Dio e gli uomini non sarà più interrotta.

Ed egli vide…” – è un’esperienza che è riferita solo a Gesù – “…lo Spirito di Dio…”: l’evangelista evita di usare l’espressione “Spirito Santo”. L’azione dello Spirito è di santificare, cioè di separare le persone dal peccato, e Gesù, quando appunto pronuncerà le ultime parole, dirà ai suoi discepoli: andate a battezzate nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, s’intende questo Spirito Santo ché santifica le persone. Su Gesù scende lo Spirito: l’articolo determinativo indica la totalità dello Spirito. Lo Spirito è la forza, è l’energia di Dio. In Gesù c’è tutto quello che è di Dio, la completezza, la pienezza del Suo amore;

“…discendere come una colomba.”: l’evangelista si richiama al libro del Genesi. Già Matteo ha presentato Gesù come la nuova creazione, ed ora richiama che lo Spirito aleggia sulle acque, e, nei commenti dei rabbini questo Spirito veniva immaginato come una colomba: Gesù è il nido dello Spirito di Dio, è il nido dove questa colomba – lo Spirito – scende e rimane.

Ed ecco una voce dal cielo…”: voce dal cielo significa l’esperienza divina, è Dio stesso (il cielo indica Dio), “…che diceva” – l’evangelista probabilmente è un abile scriba, e fonde insieme tre testi dell’Antico Testamento: il Salmo 2, il libro del Genesi, e il profeta Isaia.

  1. Nel salmo 2 si dice: “QUESTO È IL FIGLIO MIO…”: è il salmo che indica la consacrazione del re come messia, in Gesù Dio vede il figlio. Figlio non si intende soltanto colui che è stato generato, ma colui che gli assomiglia nel comportamento; quindi l’evangelista sta dicendo: chi vede Gesù vede Dio, vedendo e comprendendo chi è Gesù, si comprende chi è Dio;
  2. L’AMATO” : è il riferimento al libro del Genesi: Isacco è il figlio amato di Abramo:
  3. IN LUI HO POSTO IL MIO COMPIACIMENTO”: nel messia (Gesù), che ha deciso di manifestare visibilmente la tenerezza, l’amore del Padre per tutta l’umanità, c’è la benedizione, l’approvazione del Signore (Isaia).

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EPIFANIA DEL SIGNORE – 6 GENNAIO 2020

SIAMO VENUTI DALL’ORIENTE PER ADORARE IL RE

COMMENTO DI PADRE ALBERTO MAGGI OSM

Mt 2,1-12

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».

All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».

Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».

Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono.

Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

*

In ogni società lo straniero ha sempre messo paura: paura per quello che può prendere, per quello che può togliere e viene visto con diffidenza.

Nei vangeli gli stranieri sono sempre presentati come persone positive che non tolgono, ma arricchiscono. È quanto ci scrive l’evangelista Matteo nell’episodio della nascita di Gesù che risponde a quello slogan che è tipico di ogni società egoistica – era anche al tempo di Gesù – il “Prima noi”.

C’è un popolo eletto, un popolo privilegiato che considera che tutto quello che concorre alla pienezza della vita sia di suo diritto, poi, se proprio ci avanza, anche agli altri. Ebbene, Gesù nel suo insegnamento dirà “No prima noi, ma tutti insieme”. Questo ci scrive l’evangelista presentando la nascita di Gesù.

Quando Gesù nasce appaiono alcuni Magi che vennero dall’oriente. Questo fatto determinò tanto scandalo nella chiesa perché l’evangelista adopera il termine “mago”. Mago è un’attività proibita dal libro del Levitico nel capitolo 19. E nel Talmud si legge addirittura “chi impara qualcosa da un mango merita la morte”.

I primi ad accorgersi della nascita di Gesù, figlio di Dio, sono quindi degli stranieri, dei pagani e dediti a un’attività scandalosa, proibita. Il termine mago indica: ingannatore, corruttore.

Allora la primitiva comunità cristiana provvide ad annacquare questo termine da mago al plurale più innocuo “Magi”; e poi in base ai doni viene identificato il numero di tre elevati alla carica regale. Ma si svuotava così il contenuto di questo importante brano.

Ebbene, mentre arrivano i Magi, tutta Gerusalemme e il re Erode vengono presi dal terrore, terrore perché? Erode ha paura di perdere il potere e tutta Gerusalemme teme di perdere il tempio con tutto quello che ne consegue. Ma quando arrivano questi maghi nel luogo dove è nato Gesù, scrive l’evangelista che essi provano una grandissima gioia.

Questo è il punto centrale di questo episodio di grande attualità, mostra che non c’è un popolo eletto, un popolo privilegiato, non c’è il “Prima noi”, ma tutti insieme.

Israele si considerava il popolo privilegiato perché era il popolo del regno di Dio, era il popolo sacerdotale ed era il popolo sposo di Dio. Ebbene, mediante l’offerta dei doni da parte di questi Magi – maghi – questo che era considerato un privilegio di Israele passa a tutta l’umanità.

Ecco allora il dono dell’oro, che significa la regalità, il regno di Dio non è più riservato a un popolo, ma è per tutta l’umanità perché l’amore di Dio non accetta barriere, muri o altro.

L’incenso, era l’offerta riservata ai sacerdoti. Anche il privilegio di essere il popolo sacerdotale, che ha perciò un rapporto diretto con Dio, non è più soltanto di Israele, ma passa a tutta l’umanità.

La mirra, nel Cantico dei Cantici è il profumo che indica l’amore fra gli sposi e Israele si considerava il popolo sposa di Dio, tra Dio e il popolo d’Israele c’è un amore sponsale, indica una piena, profonda intimità. E anche questo privilegio passa a tutta l’umanità.

Quindi non c’è un “Prima noi”, un popolo privilegiato, ma, come insegnerà Gesù, tutti insieme, non ci sono esclusi, ma l’amore di Dio vuole arrivare ovunque.

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II DOMENICA DOPO NATALE – 5 GENNAIO 2020

IL VERBO SI FECE CARNE E VENNE AD ABITARE IN MEZZO A NOI

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM

Gv 1,1-18

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.

Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.

E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.

Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».

Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.

Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

*

La liturgia di questa domenica ci presenta il prologo al vangelo di Giovanni. Sono i primi 18 versetti del suo vangelo, nei quali l’evangelista riassume ed anticipa tutto il suo vangelo.

L’evangelista inizia correggendo la Scrittura e termina smentendola. Infatti inizia il suo vangelo scrivendo: “In principio era il Verbo…” : il “verbo” significa la parola, è una parola creatrice, che realizza il progetto di Dio nella creazione ;

“…e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”: l’evangelista corregge l’interpretazione biblica nel libro della Genesi – il primo libro con il quale si apre la Bibbia – dove c’è scritto: “In principio Dio creò il cielo e la terra”.

Per l’evangelista, Dio, prima ancora di creare il cielo e la terra, aveva questo progetto che ha voluto che si realizzasse. Usando la parola “Verbo”, cioè parola, l’evangelista contrappone alla tradizione biblica, che diceva che il mondo era stato creato in vista delle dieci parole, cioè il Decalogo, afferma che c’è un’unica parola che si manifesterà in questo vangelo, in un unico comandamento di Gesù: “Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato”.

Se l’evangelista inizia correggendo la Scrittura, conclude il prologo con un’affermazione che smentisce alcune affermazioni della Bibbia. Infatti scrive al versetto 18, in maniera perentoria: “Dio, nessuno lo ha mai visto!”.

Ma come può l’evangelista affermare una cosa del genere? Eppure nella Bibbia si legge che Mosè, Aronne e altri 70 anziani hanno visto Dio. L’evangelista ci fa capire che non è così: hanno avuto esperienze parziali e pertanto la Legge che esprimono non può manifestare la pienezza della volontà di Dio.

L’evangelista è lapidario: “Dio, nessuno l’ha mai visto”. “Il figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre…” – “nel seno” significa nella piena intimità – “… è lui che lo ha rivelato”.

È importante questa affermazione: per l’evangelista

Gesù non è come Dio, ma Dio è come Gesù.

Tutto quello che noi credevamo di sapere, che ci è stato insegnato su Dio, ora va verificato con quello che vediamo in Gesù seguendo questo vangelo. Tutto quello che corrisponde e coincide, va mantenuto, ma tutto quello che si distanzia o addirittura gli è contraddittorio, va eliminato.

Quando, in questo vangelo, nel capitolo 14, Filippo, uno dei discepoli, dirà a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta”, Gesù risponderà: “chi ha visto me ha visto il Padre”. Quindi l’evangelista conclude il prologo del suo vangelo con un invito a centrare tutta l’attenzione sulla figura di Gesù.

Andando a ritroso in questo prologo, l’evangelista afferma: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità…” – è un’espressione che indica l’amore generoso, l’amore fedele che si fa dono – “…vennero per mezzo di Gesù”: Gesù, che è l’unica vera manifestazione di Dio, inaugura una nuova relazione con Dio: mentre Mosè, il servo di Dio, aveva imposto una legge tra dei servi e il loro signore basata sull’obbedienza alla Legge, Gesù, che non è il servo di Dio, ma è il figlio di Dio, propone un’alleanza tra dei figli e il loro padre, non più basata sull’obbedienza alla Legge, ma sull’accoglienza e la pratica del suo amore.

E “dalla sua pienezza…”, cioè dalla realizzazione di questa parola in Gesù – “…noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia”: ecco la dinamica della vita del credente e di tutta la comunità cristiana: è un amore che alimenta amore, amore comunicato, che si trasforma in amore donato.

E il versetto più importante, posto proprio al centro di questo prologo, è il versetto 12. Dove prima l’evangelista aveva scritto: questo progetto, questa realtà “venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto: non è un’affermazione polemica con un mondo dal quale la comunità cristiana si è ormai allontanata, ma è un monito di stare attenti a non commettere gli stessi errori, perché, quando Dio si presenta – e si presenta sempre in forme nuove – in nome del Dio del passato non si riconosce il Dio che viene.

Ed ecco il versetto più importante e posto al centro: “A quanti però lo hanno accolto…” – questo progetto di Dio che si manifesta in Gesù – “…ha dato il potere di diventare figli di Dio”: figli di Dio non si nasce, ma lo si diventa; lo si diventa accogliendo Gesù nella propria esistenza, e imitandolo nel suo amore. Con Gesù Dio non è più da cercare, ma da accogliere. Con Gesù, l’uomo non vive più per Dio, ma vive di Dio, e con Lui e come Lui va verso gli altri.

Al versetto 14 l’evangelista afferma: questo progetto “si è fatto carne” : si è realizzato nella debolezza della umanità, “e venne ad abitare in noi” : non soltanto venne ad abitare in mezzo a noi, ma in noi. Con Gesù Dio chiede ad ogni persona di essere accolto nella sua vita, per fondersi con Lui, per dilatare la sua capacità di amare e renderlo l’unico vero santuario nel quale s’irradiano il suo amore e la sua misericordia. Mentre nell’antico santuario erano le persone che dovevano andare, e non tutti ne avevano l’accesso, nel nuovo santuario è il santuario che va verso gli ultimi, che va verso gli esclusi.

Il fatto che questo progetto di Dio si manifesta nella debolezza della carne, indica che non esiste dono di Dio che non passi attraverso l’umanità: più si è umani e più si manifesta il divino che è in noi.

Ritornando all’inizio del prologo comprendiamo quello che l’evangelista voleva dire: fin dall’inizio c’era questo progetto di Dio, una parola che s’incarna e manifesta la condizione divina e, in questo progetto “era la vita e la vita era la luce degli uomini. La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno vinta”. Ecco il grande incoraggiamento che l’evangelista ci dà: bisogna accogliere questo amore di Dio e manifestarlo. Non bisogna combattere le tenebre, non bisogna sprecare energie per combattere, ma la luce deve splendere, si deve espandere. Nella misura in cui la luce si espande, ecco che le tenebre se ne vanno.

Questa idea, che poi girerà in tutto il vangelo, verrà poi formulata da Gesù pochi istanti prima di essere arrestato, quando Gesù dirà: “Coraggio io ho vinto il mondo!”. Coloro che si pongono a fianco della verità della luce, dell’amore, saranno sempre i vincitori sulla tenebra, sull’odio e sulla morte.

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