Recensione: NO LOGO
Baldini&Castoldi 2001
ll marchio: un concetto astratto nato nel secolo scorso e che da allora ha acquistato sempre più importanza fino a diventare una presenza fissa nella nostra vita. Questa ingombrante figura ci segue sempre e ovunque, e il più delle volte neanche ce ne accorgiamo. O forse sì, ma ormai non c’importa più.
Il brand è diventato talmente familiare da essere entrato nella nostra cultura, fin dalle scatolette di zuppa di Andy Warhol. Ha iniziato a occupare sempre più spazio, fino a non lasciare nessun posto privo di pubblicità. Ovunque ci si giri, esso è presente, pronto a ricordarci cosa aggiungere alla lista della spesa e come comportarci per essere integrati. Ha fatto anche di più: è entrato nella nostra mente, nella nostra sfera emotiva, fino a evocare sentimenti stranamente intimi come la nostalgia, fino a dettarci i ritmi e le scelte della nostra esistenza.
Ma come è nato il fenomeno del marchio? Cosa c’è dietro a questo potentissimo strumento? Quali sono le risposte possibili
Queste sono le domande che si pone Naomi Klein nel suo “ No Logo”, un libro che parte dalle basi per arrivare alle motivazioni profonde che provocano certe interazioni tra persona e marchio, ma anche una ricerca della controcultura nata dalla reazione ostile all’invasione del branding che cerca di combatterlo usando le sue stesse armi. Il libro, di piacevole lettura, vuole trovare una risposta a questi quesiti e lo fa senza scadere mai nella banalità o nella retorica, partendo dalla volontà rivoluzionaria dei giovani per arrivare alle logiche dell’economia mondiale che alimentano il fenomeno fin troppo raramente messo in discussione per ciò che veramente è: un inganno servito alla massa.
Un raggiro sin dagli albori che videro, alla fine dell’800’, la comparsa dei primi marchi e dei primi testimonial, quegli Uncle Ben o Aunt Jemima raffigurati sulle confezioni per creare un senso di familiarità con il consumatore sostituendo la figura del commerciante al dettaglio. Ovviamente non c’è mai stato uno zio Ben, ma tanto bastò a creare le prime associazioni tra un prodotto che fino ad allora era venduto in maniera anonima e un nome specifico; nasceva la competizione tra le varie aziende per strappare il mercato alla concorrenza e creare la prima massa di fedeli acquirenti, fedeli al logo. Da allora il marchio si è conquistato un ruolo sempre più importante nell’economia del consumo, attraverso processi graduali in cui le aziende pubblicitarie hanno avuto grande merito. Da semplice intermediario è passato ad avere una vera propria identità: lo Zio Ben ha un’anima adesso, proprio come Pinocchio (e come il simpatico burattino di Collodi, più aumentavano le bugie più cresceva il naso sulla faccia delle grandi aziende).
Il logo non è più uno slogan o una mascotte, ma rappresenta un concetto, un valore (come la famiglia) e parla direttamente a chi da quel valore o concetto si sente rappresentato, creando una sintonia tra l’azienda e il consumatore che condividono la stessa visione della vita, gli stessi obiettivi, e creando perfino un stabile legame emotivo con il cliente.
Attraverso strategie pubblicitarie sempre più aggressive, e sempre più costose (al punto che il marketing è diventata la prima spesa delle grandi aziende) il marchio ha acquisito più importanza del prodotto stesso: la merce in vendita adesso è un’esperienza, una sensazione, uno stile di vita, un’identità da vestire per chi non ne avesse una. Se vuoi dimostrare di essere veramente una femminista, per esempio, devi vestire solo una certa marca; sofisticato, un’altra. Il marchio è un aspirazione al successo, a diventare qualcuno; è una perfetta incarnazione dell’ideale, a seconda del messaggio che vuole essere lanciato, un concetto astratto senza limiti.
La Nike per esempio usò il testimonial Micheal Jordan negli anni 80’ per creare l’ambizione del atleta perfetto, possibile solo attraverso l’acquisto dei loro prodotti. “Just do it” non è uno slogan: è una filosofia di vita. Negli anni 90’ il passo successivo: il marchio non si sarebbe limitato a stare sui prodotti, ma anche sulla cultura esterna. Dall’invasione degli spazi pubblici, dei media, delle scuole, degli eventi fino all’uso di icone culturali come estensioni del brand.
La necessità di competere in un mercato sempre più ampio e diversificato ha fatto sì che le varie aziende hanno dovuto adottare una strategia iperaggressiva, con il risultato che l’invasione è diventata totale, sia nella sfera pubblica che in quella privata. L’incursione nella prima ha causato spesso una deviazione dai diritti e dagli interessi della collettività, favorendo gli interessi di pochi; nel secondo il marketing continua a distruggere il nostro diritto alla privacy, considerando le persone esclusivamente come consumatori e quindi potenziale fonte di ricavi.
La Klein scriveva No Logo quasi 20 anni fa; al giorno d’oggi il marketing si è sviluppato così tanto (soprattutto nel mondo virtuale) che la pubblicità è indirizzata ad hoc al singolo. L’anno scorso è uscito un film molto interessante, The Social Dilemma, che spiegava attraverso le parole dei creatori dei social network, come essi abbiano perfezionato così tanto il sistema di acquisizione delle informazioni di mercato e della pubblicità mirata che ognuno di noi, appena accede a un social o a un motore di ricerca come Google, diventa immediatamente soggetto a un attacco multiplo in cui prima ci vengono carpite le informazioni sulle nostre attività, passioni, hobby, relazioni ecc. e poi le stesse vengono usate per creare messaggi pubblicitari personalizzati che vengono inseriti in qualsiasi pagina decidiamo di entrare. Tutto istantaneamente, tutto a nostra insaputa. I vari governi hanno provato a mettere un limite a questi sistemi, ma sono semplicemente troppo lenti per stare al passo con un mondo che si evolve troppo velocemente avendo a disposizione le migliori risorse umane e non, essendo il mercato più redditizio al momento.
L’aver puntato così tanto sulla propria immagine però costituisce un’immagine a doppio taglio per le aziende, che hanno necessità di rappresentarsi come portatori di valori positivi e discostarsi da tutto ciò che può rovinare questa facciata. Uno scandalo che coinvolge un’azienda può causare danni enormi alle vendite, e quindi ai ricavi della stessa.
Per esempio l’aver incentrato tutta l’attenzione sul marchio ai danni del prodotto, che come spiega la Klein alla fine non ha molto valore in sé, in quanto ce ne sono a disposizione centinaia uguali anche a prezzi inferiori, ha portato le grandi aziende ad allontanarsi sempre di più dalla produzione, vista quasi come un fastidio necessario. Ciò che conta è il marchio, che quindi attrae tutti i costi; dovendo tagliare in altri settori si è deciso di tagliarli in quello della produzione.
Ciò ha portato all’outsourcing, cioè affidare la fabbricazione degli oggetti ad appaltatori esterni, spesso o quasi sempre in Paesi in via di sviluppo dove è possibile trovare lavoratori a basso costo, e dove le leggi permettono il quasi totale non rispetto dei loro diritti, e quindi niente sindacati, orari di lavoro assurdi e condizioni degli ambienti lavorativi inumani e privi della minima sicurezza necessaria. Citerò solo un esempio riportato nel libro che mi è sembrato assurdo: in una fabbrica indonesiana è proibito sorridere (non chiedetemi il perché). Le aziende ovviamente se ne lavano le mani, dicendo che queste fabbriche non fanno parte dell’azienda e che quindi esse non hanno alcun tipo di potere né alcuna responsabilità. Eppure non è difficile per i consumatori imputare proprio a esse la colpa di quanto sta accadendo in quelle fabbriche, perché sarebbe facile fermare questa situazione e sostituirla con una più appropriata; non è però nel loro interesse.
Un altro danno all’immagine può essere causato dagli effetti che spesso queste aziende hanno sull’ambiente o sui governi dei Paesi in via di sviluppo che spesso hanno necessità di conservare il contratto e quindi sono disposti a usare i propri eserciti per far valere gli interessi delle multinazionali. Un esempio è la Shell, che estraeva petrolio in Nigeria da terreni confiscati alla popolazione Ogoni, costretti a vivere nell’ inquinamento causato dall’estrazione. Quando essi provarono a reclamare ciò che era loro, guidati dal premio Nobel Ken Saro-Wiwa, l’esercito dell’allora governo nigeriano represse violentemente la rivolta, con diverse migliaia di vittime tra cui lo stesso leader, imprigionato e giustiziato con false accuse. Non era difficile capire che l’esercito nigeriano aveva deciso di difendere gli interessi della Shell schierandosi perfino contro i propri cittadini.
Si può fare qualcosa per fermare lo strapotere che queste multinazionali hanno acquisito con ingenti capitali e agendo spesso nell’ombra? La Klein sostiene di sì, con un semplice ragionamento: arma a doppio taglio appunto, perché i consumatori che vengono a conoscenza di queste violazioni dei diritti perpetrati dalle aziende hanno alla fine di tutto, il potere di scegliere cosa comprare e cosa no. La Shell, durante lo scandalo ambientale della Brent Spar, piattaforma petrolifera che l’azienda voleva semplicemente far affondare nell’oceano, subì un calo delle vendite tra il 20 e il 50%, e alla fine fu costretta a mettere in atto la soluzione proposta da Green Peace.
Esiste qualcosa quindi che si può fare, attraverso l’informazione su tutto ciò che le aziende fanno e l’organizzazione in movimenti capaci di influenzare l’opinione dei consumatori. Molte aziende, costrette dalla pressione, hanno sviluppato codici di condotta più umani e si sono rifiutate di collaborare con chi non rispettava i diritti umani basilari.
Tutto ciò però è sufficiente? Purtroppo no, come ci dice la stessa autrice, perché molti di questi scandali sfuggono all’attenzione del grande pubblico, o sono perpetrati da aziende che non hanno nomi (per esempio quelle di estrazione di risorse naturali). Ci sono troppi limiti e troppi interessi in gioco per far sì che i semplici cittadini, per quanto ben organizzati, possano fare qualcosa.
Soluzioni più concrete possono essere lo sviluppo di leggi e codici internazionali che rendono uguali per tutti il rispetto di certe regole; obblighi a una maggiore trasparenza da parte di aziende e governi, organi che si occupino di sorvegliare i loro comportamenti e istituzioni capaci di far rispettare veramente queste regole.
Perché alla fine è interesse di tutti noi, non essere trattati come semplici fonti di denaro e non essere manipolati e usati in ogni modo possibile.
Ma non solo: “ la globalizzazione è molto più del semplice scambio di beni e capitali e implica che tutti noi dobbiamo sorvegliare e custodire i nostri fratelli e le nostre sorelle in tutto il mondo”.
A cura di Davide Candotto
Servizio Civile 2020-21